All’interno di una serra si ricerca l’ordine naturale, il miracolo della crescita, l’incrocio delle infinite possibilità delle specie. Con
GreenWinter, il Pav presenta tre artisti che, con le loro opere, non offrono la pace che ci si aspetterebbe in un luogo simile, ma riflessioni che spaziano dai delicati equilibri ambientali a sconcertanti interrogativi di natura bioetica.
Ma quali sono le sovrastrutture che c’impediscono di dichiarare il limite alla ricerca artistica? È legittimo definire “arte” l’utilizzo di conoscenze acquisite in settori altamente specializzati e poi riproposte alla luce di interpretazioni che coinvolgono i nostri sensi e il nostro comune sentire? Questa riflessione introduce temi storicamente difficili da argomentare; ma una cosa è bene dirla subito, con estrema sincerità intellettuale: la scienza si basa su sperimentazioni continue, che implicano ragionamenti che non dovrebbero essere estrapolati e distorti con eccessive semplificazioni per creare stupore o interesse in altri ambiti. Sempre che alla base della ricerca non ci sia un onesto e costante impegno di un professionista che decida di divulgare un determinato sapere con lo stessa cura e devozione che richiede la disciplina originaria.
Insomma, l’arte non deve divenire veicolo di facili strumentalizzazioni, ma fornire la chiave d’accesso a una conoscenza superiore, molto più ricca grazie all’utilizzo dei filtri di una mente allenata alla complessità e capace di interpretarne i misteri e le suggestioni. In quest’ottica si pone il lavoro di
Dario Neira, che coniuga la serietà dello studioso di medicina alla sensibilità di chi non accetta un solo ordine ai livelli della realtà.
Memori di un suo lavoro,
Disease, di grande potenza e coinvolgimento sensoriale, in cui si entrava all’interno dei meccanismi tecnologici e psicologici indotti da una risonanza magnetica, s’incontra ora al Pav un altro contesto supportato dai suoi interessi per la biotecnologia.
John 1,14 Project è una fredda installazione che ripercorre le tappe della ricostruzione in vitro della pelle, la pratica utilizzata in genere per la cura dei grandi ustionati, e qui riproposta al fine di ottenerne dei lembi, in questo caso dell’artista, da ritagliare con fustelle sterilizzate per comporre delle parole. Suggestivo il richiamo alle Sacre scritture nella citazione “
il verbo si fece carne”; il riferimento, visto al contrario e interpretato in modo letterale, semanticamente scisso dal suo valore contestuale, rivela un progetto eticamente discutibile ma di forte impatto emotivo.
La grande scritta
Mancozeb nel cortile interno del Pav, ottenuta con 1600 sigilli di farmaci antitumorali e chemioterapici, richiama invece l’attenzione sugli effetti di questa pericolosa molecola pesticida usata per le coltivazioni.
Delicati equilibri che si spezzano e che lanciano allarmanti segnali di catastrofi ambientali sono il tema dell’installazione di
Filippo Leopardi, che occupa l’ingresso del Pav con nove, antiche arnie sormontate da altrettante accattivanti piante carnivore, le audaci
nepenthes alate. Se tanto fascino naturale può essere un simbolo nefasto è da discutere, ma il fatto che le api ultimamente non godano di ottima salute e siano effettivamente disorientate da onde magnetiche e nocivi prodotti chimici è stato motivo di forte preoccupazione a ogni livello gerarchico del nostro sistema politico e scientifico.
Infine, il lavoro di
Giuliana Cunéaz su grandi video al plasma. Si assiste al movimento di surreali forme in paesaggi rubati allo studio al microscopio di determinati ambienti biologici, in un alternarsi voluttuoso di dissonanze e colori che poco spazio lasciano ai dettagli dipinti sullo schermo. Potrebbero non esserci, e la sostanza del lavoro non cambierebbe.