“La storia del giornalismo per immagini rimane una storia per molti versi mai raccontata”. Sono parole di Uliano Lucas, fotoreporter e curatore di questa Biennale di Fotografia tutta dedicata al fotogiornalismo italiano. Divenuto, nel suo progetto espositivo sezionato in undici nuclei temporali, un itinerario dove ripercorrere i principali avvenimenti di cronaca e di costume del nostro Paese, e soprattutto l’evolversi del linguaggio visivo. Inevitabile termometro e insieme prodotto dei mutamenti socio-politico-economici nonché tecnologici, succedutisi nell’arco di sessant’anni di storia nazionale. Un linguaggio testimoniato sia dalla singola immagine scattata dal fotoreporter di talento o frutto del lavoro di agenzia, come dalla copertina di un settimanale o dalla pagina di un quotidiano. Le cui riproduzioni, poste accanto alla foto di riferimento, spesso aiutano a comprenderne le perpetue oscillazioni di messaggio, in bilico tra denuncia e intrattenimento da rotocalco. Perché, secondo quanto emerge dalla mostra, dopo l’iniziale entusiasmo per una fotografia di testimonianza durante gli anni della ricostruzione post-bellica –esemplare il reportage in Sardegna di Federico Patellani Vita di minatore per il settimanale Tempo– l’informazione per immagini sembra, col tempo, indirizzarsi più verso l’evasione a discapito dell’approfondimento.
Così, ha inizio un lungo fiume tranquillo per il nostro fotogiornalismo contrastato da due momenti forti: l’indipendenza dei freelance degli Anni ’50 e l’avvento del ’68. I primi, liberi dalle regole imposte dalle numerose agenzie costituitesi in quegli anni, – che vantano anche la nascita del paparazzismo e di fotografi famosi come il romano Tazio Secchiaroli – realizzano servizi su tematiche scelte da loro stessi. Che vanno poi a vendere a giornali illuminati come Settimo Giorno, L’Illustrazione italiana o Mondo, ben disposti a pubblicarne il taglio personale su una pluralità di soggetti. Dalla Repubblica Popolare Cinese vista da Caio Garrubba alle immagini di una Milano periferica colta dall’obbiettivo di Ugo Mulas, contro quella intellettuale da Bar Giamaica di Alfa Castaldi. Foto molto poco documentarie, ma piuttosto letterarie che si fanno incalzante reportage negli anni della contestazione e della successiva stagione del terrorismo. “L’immagine nuova, diversa, irrompe dagli strappi della storia, quando c’è conflitto –afferma il fotoreporter Tano D’Amico– Quando si mette in discussione un regime, il primo a cambiare è il modo di vedere”.
Sono anche gli anni che vedono nascere gli staff fotografici proprio nel cuore dei quotidiani, per catturare il momento della protesta o del fatto di sangue e darne notizia il più velocemente possibile. Un esempio su tutti, gli scatti da cronaca nera dei fotografi de La Stampa di Torino Ugo Liprandi e Piero De Marchis. Poi, lo stile pubblicitario tipico degli Anni ’80-’90 s’impone come modello fino a travalicare i confini del rotocalco d’immagini e a determinare la fine di un certo fotogiornalismo d’inchiesta, che permane ancora oggi.
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www.lastampa.it/fotogiornalismo
claudia giraud
mostra visitata il 1 settembre 2005
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