Il mito (a volte reale) dell’artista stravagante o folle esiste da sempre. La fantasia, che già Orazio diceva esser lo strumento che porta l’arte oltre il reale, ha spesso coinvolto, o sconvolto, l’esistenza di pittori, scultori, musicisti. Nel Novecento, poi, con avanguardie come il Dadaismo, Fluxus e Body Art, la distanza fra arte e vita è stata annullata e l’artista è diventato opera.
Anche
Danica Phelps (New York, 1973), alla sua prima personale italiana, crea lavori autobiografici. Lo fa però in maniera del tutto diversa da personaggi come
Orlan,
Burden,
Nitsch o
Gilbert & George. “
Non mi piacciono gli artisti che vivono la loro vita come arte”, dice l’artista. “
Mi sembra una forzatura”. Nei lavori dell’americana, la vita di tutti i giorni diventa materiale creativo: “
Ho deciso di parlare di me in modo dettagliato e intimo perché credo che le persone si immedesimo facilmente nelle mie esperienze”, continua Phelps.
Sono azioni universali come saldare una bolletta, ricevere un pagamento, accendere un mutuo, concepire un figlio, metterlo al mondo e vederlo crescere. Scontrini, estratti conto, appunti, carte e cartacce sono i protagonisti di una prima serie di lavori.
Chart è una tabella serigrafata che riporta, in linee di tre colori (verde, rosso e grigio), le spese, i debiti e i guadagni che l’artista ha avuto nel gennaio 2007. Tutto il materiale cartaceo usato per questo rendiconto visivo, l’ultimo di una serie iniziata nel 1996, è stato poi riciclato per creare una serie di lettere. Quelle usate per la scritta murale che dà il titolo alla mostra e che recita:
Drawings about the present quickly become work about the past.
I “
disegni sul presente che subito diventano lavori sul passato” formano la seconda parte della mostra. Si comincia col racconto per immagini del viaggio in India, dove l’artista si è sottoposta alla fecondazione in vitro. Segue, fisiologicamente, la nascita del figlio Orion, il vero protagonista della mostra. Questa esperienza è raffigurata in immagini che si fondono le une con le altre. Su un foglio lungo alcuni metri scorrono, come
frame cinematografici, flash del viaggio indiano, immagini della clinica, ritratti di familiari e altri di sconosciuti, frammenti visivi del parto e ritratti del figlio che cresce, gioca, mangia. Il tratto è sottile, nervoso, virtuoso nella sua dettagliatezza, e lascia immaginare la velocità d’esecuzione di Phelps.
Nella scritta murale, questa
vanitas del presente assume una simbologia già usata nelle nature morte fiamminghe: i fiori. Parte delle lettere che formano la frase, infatti, sono disegnate con motivi floreali, mentre quelli veri serviti da modello appassiscono lentamente per terra. Dice l’artista: “
Vedo mio figlio crescere così rapidamente che è come se morisse ogni notte, per rinascere la mattina seguente. I fiori e i miei disegni sono una metafora perfetta del tentativo di cogliere il presente, che però subito sfugge”.