Se è vero che le mostre alla galleria Vitamin non hanno sempre convinto, è altrettanto vero che alcune, per esempio la personale di Kate Bright, si sono collocate a un livello molto alto nel contesto dell’offerta torinese. Quest’ultima considerazione è valida sicuramente per la collettiva Color Theory, per la quale è stato chiamato un curatore d’eccezione, Franklin Sirmans (fra l’altro, caporedattore di “Art Asia Pacific” e in Italia co-curatore della collettiva “Americas Remixed” vista a Milano). Il titolo della mostra, ammiccando alla secolare questione della teoria del colore, sposta tuttavia il fulcro dell’attenzione dall’aspetto fenomenologico ed estetico a quello politico. Il colore come pigmento dell’epidermide ha dato anch’esso vita a teorie (sciagurate), e d’altra parte ha avviato una riflessione sociale e culturale sulla migrazione, sul meticciato. Per questa ragione, gli artisti invitati sono il frutto genetico-culturale di “contaminazioni” che, senza ombra di dubbio, costituiscono la virtù più evidente della globalizzazione e in particolare della società statunitense.
Senza volersi addentrare nella diatriba concernente il multiculturalismo vero o presunto in America, la mostra accosta il colore della pelle delle opere e quello della pelle di chi le realizza, in un’interazione che nella sua complessità è lo stimolo maggiore della visita.
Il colore come azione pittorica è il soggetto del video di Jeremy Bailey, mentre poco distante Roberto Visani adorna armi usate in conflitti interetnici con monili e prodotti africani, trasformando in opera d’arte l’orrore della guerra armata dall’Occidente. Il nippo-canadese Kevin Ei-Ichi Deforest affronta la cultura di massa e in particolare i 33 giri in vinile, intervenendo sulle copertine con inserzione di materiali eterocliti o pittoricamente, poi riponendo il prodotto nelle classiche buste da collezionista. Ancora più evidente la contaminazione culturale nei disegni su carta di Chitra Ganesh, che coniuga in maniera iconografia indù e controcultura californiana, elaborando figure multicefale e abnormi che lottano con sé stesse. William Cordova è presente con due piccoli e notevoli lavori su carta a matita e inchiostro, ma soprattutto con il grande Wholesellers, reailers and bullshitters (2004), realizzato su carta stagnola dorata con spray, inchiostro e grafite. Sul supporto rilucente, un furgoncino ricoperto di graffiti è privo di un pneumatico. Un mezzo di locomozione forse abbandonato, forse in panne, assoluto in un’atomosfera barocca, sontuosamente artigianale. Vanno ancora citati i “ritratti” di Jeff Sonhouse, che nei suoi lavori su carta o legno trasveste i propri soggetti celandone identità e provenienza, con una tecnica coloristica e l’utilizzo di tecniche miste aspramente ironiche. Infine, Wangechi Mutu propone due collage Untitled (2004). In particolare, quello sottolineato From Tumors, colpisce per la frizione tra l’ammasso canceroso centrale e le estremità, esplicitamente a forma di gambe nude femminili. Che paiono tratte –non a caso- da riviste erotiche e che –ancora una volta non a caso- vengono attirate inesorabilmente verso il buco nero.
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marco enrico giacomelli
mostra visitata il 1° ottobre 2004
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