A volte, all’interno del processo creativo è necessario sollecitare e ravvisare un tipo di filosofia
casalinga basata sull’inutilità delle reazioni e sullo spirito di acquiescenza. Senza decantazioni, sublimazioni, simbolizzazioni e catalizzazioni di sorta. A causa di un modello così poco esemplare di rappresentazione, la fenomenologia di questo mondo, un cielo minuscolo, diminuito e precipitato, a volte ci fa sentire autorizzati a toccare dei tasti esistenziali che lo squallore della bellezza giustifica e porta a levare in alto come lamenti premonitori.
L’arte in tutto questo registra, formula e prende atto della vanità per dar conto -anche se non sempre- delle difficoltà, quelle fornite dall’insaziabile destabilizzazione che un qualsiasi
stato estetico mette “in bella mostra”. Si passa così dall’uniforme al difforme, dalla norma all’abnorme, dalla legge all’arbitrio e, soprattutto, dalla rappresentazione semplice della realtà all’invenzione, quella scintilla completamente svincolata dai principi. La manifestazione del concetto dunque incenerisce la morale, la possibilità di una qualche forma di trascendenza, facendo persino da deterrente a una tanto agognata filosofia.
E, spesso, neppure depurando con filtri e alambicchi l’esistenza si arriva a trovarne una spiegazione artistica; una legittimazione, insomma, che sia disposta a fornire una qualsiasi, seppur microscopica, verità.
Nei lavori di
Federico Piccari (Torino, 1963) viene da chiedersi se questa emersione, questa tensione creata fra gli opposti, di arte e scienza, di arte e visione e di arte e bellezza, siano ancora possibili. Alle pareti della galleria sfilano una trentina di composizioni di media grandezza, disegnate da un sottilissimo strato di cera pigmentata, stesa poi su carta color ocra. Nel recinto rettangolare del foglio sono plasmate sagome di neonati e still life di oggetti di diversa origine.
Nonostante le posizioni, in questo caso ceree più che plastiche, pose che mantengono sempre una determinata proporzione della linea, i soggetti sono messi in relazione con uno strumento di morte.
Di rara leggerezza anche i lavori proposti su carta abrasiva nera. Qui niente sembra rimanere escluso da una scena che contempli armi, carri armati, fucili e bombe a mano. I neonati, appiattiti sulla carta e manipolati in modo da sembrare delicati acquerelli, rimangono lì, seguendo l’effetto desiderato. L’effetto della sospensione, di quella domanda che non trova risposta. Ma neanche senso. Quella domanda che esce davanti a queste riproduzioni, senza ottenere un seguito. Ma perché? E fra le tracce di cera malleata il canto, sommesso e spento dalla noia interiore, scopre un registro più alto che diventa solenne. Attraverso di esso, le grandi delusioni, le stanchezze, le fragilità di un momento avanzano una proposta forse paradossale, ma che pare accettabile davanti ai lavori di Piccari: modificare la vita fino al punto di annullarla, sostituendo un’ideale di visione con la squallida estetica del quotidiano.