Nel bel catalogo che Alberto Weber ha voluto pubblicare per presentare e sostenere la personale di
Sylvie Romieu (Sigean, 1960; vive a Portel des Corbières) compaiono tre sezioni di apparati figurativi: gli
Autoritratti,
Le Tableau de Jo e i
Moduli fotografici. Attraverso questi tre momenti, la figura dell’artista francese è pienamente delineata.
Giunta in età matura alla professione d’artista, Romieu è ciò che in Francia si definirebbe una
plasticienne. Fotografa, pittrice, manipolatrice di “scatole” che evocano il
Duchamp della
Valise verte, produce oggetti tridimensionali da appendere alle pareti che non sono sculture ma nemmeno tele. Appassionata di Marguerite Duras e di altri classici d’oltralpe (Racine soprattutto), dissemina i suoi lavori di parole che solo di tanto in tanto si palesano come portatrici di senso, e che più spesso sono tracce grafiche al pari delle immagini.
Da Weber, il viaggio che dalla letteralità dell’
Autoritratto spinge l’artista al più neutro
Modulo fotografico, passando per l’espediente di un quadro di un amico ripetutamente fotografato nella propria dimora-atelier (
Le Tableau de Jo), è limpido. Sylvie Romieu trasforma poco a poco l’intimità di un universo non condivisibile (la propria solitudine) nella possibilità estetica dell’opera d’arte. Afferma, in ogni tappa del suo percorso, che l’artista non può sfuggire al questionamento del proprio sé e che la creatività passa sempre attraverso la sua esternazione.
Il suo attuale approdo, i
Moduli fotografici, sono il compendio di questo passaggio esistenziale in cui appare costante la presenza del sé attraverso frammenti di viso, mani, scrittura e oggetti famigliari. Rispetto agli
Autoritratti o al ciclo di Jo, c’è una maggiore coscienza di ciò che la ripetizione – dei moduli tematici, appunto – può provocare a livello formale. Le scatole, che comparivano già in precedenza (e che fabbrica con le proprie mani, tutte laccate di nero e “chiuse” da una fotografia), sono ulteriormente inscatolate in un contenitore dalle stesse caratteristiche. All’interno, le fotografie lavorate, spesso seppiate, portano i segni di una sovrapposizione grafica, una calligrafia che rinvia a parole sentite, lette e rilette, care allo stesso modo dei volti ritratti.
Quest’amore per la reiterazione è presente anche nel metodo: le immagini sono fotografie di fotografie. Ne risulta una musicalità che non si può definire minimalista (troppo retrò, troppo artigianale e bric-à-brac la composizione dei frammenti e della gamma cromatica), ma piuttosto ossessiva, chiusa. Il rischio è proprio quello di costringersi in scatole artificiali, espediente diaristico che si riproduce manieristicamente.
Perciò è forse più soddisfacente sostare davanti alla serie dei quadretti di Jo: caldi momenti d’intimità senza pretesa d’artificio, in cui il corpo dell’artista appare un oggetto tra gli oggetti, passaggio effimero ma incisivo sui bei toni di rosso pompeiano del muro d’atelier.