Le carte di Simone Pellegrini (1972, Ancona; vive a Bologna), talvolta appena appuntate alle pareti con chiodi sottili, sono come infinite tavole appartenenti ad un unico fregio, potenzialmente durevole quanto il tempo concesso all’umanità. Il suo è un racconto per immagini popoloso e movimentato, fitto di significati e allegorie. Per certi versi quasi mitologico, dall’aura ancestrale, permeato da una volontà di primitivismo da intendersi come fedeltà antropologica e incorruttibilità etica.
Varianti animali e vegetali, non mero ornamento bensì veicolo di narrazione, si accostano a corpi ondeggianti che si spostano in un ampio reticolo di sedimenti della memoria. Tra i dettagli ricorrenti: cosce di donna divaricate, quasi come radici dissotterrate, da cui si dipanano flessuose lische di foglie, e teste ovali sospese, universalmente riconoscibili perché anonime, allineate in serpeggianti coreografie (Incanto di natura, 2006).
Benché sia possibile definire corali le composizioni di Pellegrini –vasti scenari vibranti di energia del mito e del rito, sensualità selvaggia ed antichi fuochi– ciò non esclude che grande importanza sia data al particolare, ai dettagli che rendono l’idea di carnalità concreta, tangibile. Attraverso una sorta di smembramento, isolando ciò che oggi potrebbe esser definito un feticcio iconografico, si invita l’osservatore a focalizzare l’attenzione via via su tracce differenti. Questa intenzione è in qualche modo introdotta dal titolo della mostra, Blasoni, che identifica le brevi poesie del XVI secolo dedicate a specifiche parti del corpo, ossessivo oggetto del desiderio nell’amor cortese.
Nonostante la complessità dei riferimenti, l’artista utilizza il disegno per vivere e sfruttare appieno la primarietà del fare, intesa quale immediatezza e mancanza di manierismi, tanto
Di piccolo, medio e grande formato, sono esposti lavori compositi, al contempo impalpabili e densi. Sebbene siano le opere più datate ad essere caratterizzate maggiormente da una notevole matericità (Leporie, 2003, 41 artecontemporanea), le quali –in qualche modo– presentano vaghe analogie con certa produzione del bolognese Stefano Ricci (Depositonero, 2002, Infinito Ltd Gallery, Torino), anche quelle più recenti posseggono una valenza organica significativa, in parte dovuta all’uso di carboncino ed olii.
Nelle attuali rappresentazioni, inoltre, una costante è data dal concetto dinamico del ritorno alla sorgente, ed è alla fonte del passato che Pellegrini attinge per gettare nuovi ponti e palesare continue scoperte, risultante naturale del processo evolutivo. Il suo scenario ideale è una porzione di etere in cui “le immagini che lo istoriano come in un misterioso palinsesto lo trasfigurano in mappa” (Franco Fanelli, 2003). Uno spazio di senso, dunque, un luogo sacro perché eterno seppur mutevole, un teatro ermetico in cui la visionarietà è rivelatrice di veridicità.
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