Se eravamo abituati alle sue sculture intricate e suggestive, con questa mostra di disegni
Marco Di Giovanni (Teramo, 1976) riesce a stupire. Cinquantuno schizzi a matita litografica su carta riciclata, posti all’incrocio fra due pareti, in un’azzeccata angolatura prospettica. Ritraggono l’attività di barman intenti nella preparazione dei cocktail sudamericani. Mani che frullano, tagliano, shakerano. Dita contorte o appena abbozzate, che ne sottolineano il lavoro frenetico. La frutta, affettata o intera, i pezzi di ghiaccio tritato. Clienti ai tavoli, ritratti nei loro semplici gesti, emergono nella singolarità espressiva che li caratterizza. Un tratto essenziale, deciso, capace di cogliere anche una smorfia del volto, una semplice ruga.
I disegni di piccole dimensioni acquistano una duplice funzione. Osservati nell’insieme, danno l’idea di continuità, narrano una storia. Presi singolarmente, indicano un particolare. L’uomo con gli occhiali seduto al tavolino evoca una sottile solitudine. La donna ritratta con il telefonino induce a soffermarsi sui gesti ordinari. Lo stivale, il tacco, rappresentano un indizio che conduce alla femminilità. Segni sintetici che racchiudono una sensibilità artistica capace di rievocare istanti vissuti.
Porteño de Romaña è un luogo ideale, immaginario e reale al tempo stesso.
Prende vita dal viaggio fatto in America Latina, dove Di Giovanni ha disegnato dal vero, ha carpito i tratti, i gesti, rendendoli indelebili sulla carta. Il tutto si fonde con elementi familiari. Vi è un riferimento esplicito all’Emilia-Romagna, ai suoi locali, ai bar.
Oltre ai disegni, in mostra vi sono quattro stampe d’incisioni a punta secca. Ma soprattutto, la serata inaugurale, in occasione di Artissima, è stata arricchita da una performance insolita. L’artista, insieme a un esperto barista romagnolo, si sono cimentati nella preparazione dei cocktail. Il tutto proiettato live all’interno della sala. Grazie alla tecnica della camera oscura, la piccola immagine risulta capovolta. Un’azione che genera stupore negli osservatori; questa volta non si tratta di sbirciare attraverso le lenti ma di allontanarsi per vedere la scena compiersi nel movimento, acquisire tridimensionalità ed emergere dalla parete. Mediante due casse incise, i rumori e le voci, prodotti dall’attività del barman e dell’artista, si diffondono nell’ambiente. L’installazione viene così a completarsi nell’atto cinematografico, reale. Ancora una volta, il ricordo è l’elemento chiave della performance. Infatti, per tutta la durata della mostra rimarranno udibili soltanto i suoni registrati durante quella serata. Il flusso costante del vissuto permette di rievocare la presenza dell’artista. Che diventa, attraverso la memoria, essenza percepibile.
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Bravissimo.