La percezione della paura, come
strumento emozionale del ricatto nella società contemporanea, come filtro
attraverso il quale guardare le cose che compongono il mondo, torna a
preoccupare
Tania Bruguera (L’Havana, 1968).
Non a caso il percorso voluto dall’artista
cubana ripropone la registrazione della performance
Autosabotaggio eseguita alla 53. Biennale di
Venezia per l’evento collaterale
The Fear Society, una roulette russa
cattedratica, durante la quale il momento topico dello sparo veniva anticipato da
un dialogo partecipato con lo spettatore, chiamato ad assistere al thriller del
rischio e dell’incertezza.
Il pezzo forte del progetto
torinese è senz’altro
Drawings,
che sottolinea ancora una volta come il rapporto col visitatore regni
sovrano nella poetica dell’artista, interessata a un confronto a due, più che
ad agire sul riguardante, tanto da proporgli di diventare parte integrante
dell’opera, sfidandolo. Il tema è sempre una sorta di fantapolitica, la domanda
è “
what if?”,
ovvero cosa succederebbe se la politica cambiasse faccia, se si
concretizzassero certi timori che hanno pervaso tanta letteratura dalla prima
metà del Novecento in poi?
Il compito che assume l’arte, in
questo caso, non è tanto quello di dare delle risposte, ma di mostrare, per immagini,
gli scenari paralleli. Così, il passante è invitato, per concludere il percorso
espositivo, ad attraversare un ampio pavimento ricoperto da lastre di
plexiglas. Fin qui tutto bene, il problema è che la trasparenza malcela il lago
di sangue animale che ha inondato il pavimento, e che l’attrito tra plastica e
liquido, incoraggiato dal peso del corpo umano e dal contatto con le scarpe,
crea arabeschi inquietanti e scricchiolii sinistri.
Meno viscerale, ma non per questo meno
interessato a raccontare l’insieme dei fenomeni che compongono il mosaico
dell’incertezza, attraverso la narrazione di un’esperienza fuori
dell’ordinarioè
Un giro di campo, il progetto co-firmato da
Cesare Pietroiusti (Roma, 1955) e
Linda Fregni
Nagler (Stoccolma, 1976; vive a Milano).
Il film, interpretato dallo stesso
Pietroiusti, racconta – attraverso la metafora sportiva – la necessità umana di
porsi degli obiettivi e di forzare i propri limiti per il conseguimento degli
stessi. La corsa sul campo dei 400 metri di un cinquantenne, verso un record
che forse non arriverà mai, il confronto con se stessi e con l’ignoto che
separa dalla meta, la meticolosa, enfatica cura nell’addestramento cozzano con
la continua messa in discussione della riuscita e della validità
dell’obiettivo, come se all’interno del protagonista convivessero due anime,
una possibilista, l’altra scettica, e pertanto d’ostacolo.
L’epica entra, inoltre, in
relazione con la componente scenica, così che i punti di vista in causa
diventano quattro: quello del personaggio principale e del suo doppio, ma anche
quello dei due artisti, anch’essi attori del confronto agonistico tra due
poetiche caparbie, seppur collaborative. Due generazioni diverse, due vicende
discrepanti, l’una “sul campo”, l’altra vissuta attraverso l’occhio della
telecamera.
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che palle!
ma perchè "che palle"? In che senso?
concordo con aldo..che palle!!!
perchè ne abbiamo le palle piene di quest'arte modaiola che non dice più niente. arte che si lega a gallerie di superficie, gallerie che si sentono importanti ma che sono solo dei contenitori di roba da esporre. soffiantino...smettila dai..basta.
che brutta!!!!