Una cinquantina di sculture di varie dimensioni, che instaurano un incantevole connubio con i disegni, le incisioni e i collage complementari alla ricerca plastica dell’artista, e che coprono un arco di tempo che va dagli anni ’60 ai nostri giorni. È l’antologica
Scultura senza confine di
Marina Sasso (Venaria Reale, 1945).
Ciò che cambia visibilmente nel susseguirsi di questi lavori davanti agli occhi dello spettatore, a primo acchito probabilmente reo di averne colto una certa uniformità formale, è soprattutto l’uso che Sasso fa della materia: acciaio, rame, piombo, ottone, bronzo. Dall’effetto di “disassemblage” dell’oggetto di fine anni ‘60, ottenuto con l’utilizzo dei soli ferro e ceramica, che evoca un certo coevo Nouveau Réalisme, si passa a volumi geometrici dove, nei pieni e nei vuoti, nelle linee e nei volumi, nelle luci e nelle ombre, sembra attuarsi un certame misterioso, che invita alla meditazione, alla ricerca dell’equilibrio e dell’armonia delle forme.
Gli anni ‘80, quando in Italia e non solo impera la Transavaguardia, per Marina Sasso sono gli anni del colore. Con un sapiente uso delle forme in relazione allo spazio, complici i disparati materiali dai bagliori e dalle luminosità differenti, l’artista riesce a infondere una nuova, singolarissima vita alle installazioni scultoree, realizzando paesaggi dotati di grande personalità. Assistiamo in questo “teatro di strutture” ai drammi e alle storie dei metalli, i cui parametri sono la tensione e l’equilibrio, la forza e la misura, la geometria e la pressione. L’idealità presiede alla loro messa in scena.
Via via si avverte un’attenzione sempre maggiore per le qualità dominanti dei materiali e le declinazioni degli stessi, probabile retaggio artistico poverista. Tutto si fa più stabile e misurato, le forme si asciugano e si marmorizzano, i cromatismi vengono ridotti ai minimi termini, le superfici, invece, esplicano al meglio le loro peculiarità riflessive. Lo sguardo va oltre il visibile per perdersi nella natura, quella nascosta ma evocata, assente ma sottesa, circostante e immanente, come nelle migliori fiabe artistiche. Capaci di condurre l’immaginazione ben più in là del mero oggetto.
Viene spontanea l’analogia con un certo
Ettore Colla, la cui creatività, rivolta verso lamiere, infissi, piastre metalliche corrose o logorate, evocava modelli antichi semplificati a scheletri materici.
Il titolo della mostra curata da Claudio Cerritelli è dunque giustificato pienamente: l’ontologia della forma in quanto tale si impone ancora una volta con la sua forza, senza rinunciare al rigore e all’eleganza dei suoi profili.