Le Olimpiadi invernali non avranno forse lasciato dietro di sé la scia di turisti che ci si augurava. Ma è indubbio che, grazie a quell’esperienza, Torino ha affinato gli strumenti per compiere un ulteriore passo lungo il cammino da metropoli industriale a città di cultura. Un elemento basilare in questa transizione è rappresentato dal sapersi rendere vivibile, addirittura allettante anche durante i mesi estivi, quando la maggior parte degli agglomerati del Nord-Italia si svuota di residenti e non si riempie di gitanti. Tralasciando l’offerta in altri ambiti -innanzitutto musicale, ch’è di tutto rispetto-, alcune istituzioni artistiche si stanno muovendo nella direzione auspicata. A partire dal Castello di Rivoli, con una mostra che riorganizza tematicamente la collezione e presenta le recenti acquisizioni, al fianco d’una straordinaria personale di Bruce Nauman; con l’arte contemporanea israeliana, a Palazzo Bricherasio; senza tralasciare altri giusti e periodi, dalla collezione del museo nazionale di Kabul al Museo di antichità a Michelangelo a Palazzo Bricherasio, passando per le manifatture borboniche alla Pinacoteca Agnelli.
E la Fondazione Sandretto? Naturalmente è nel gruppo di testa, con una mostra “da ascoltare”. Una rassegna notevole, in merito alla quale c’è ben poco da eccepire. Ci s’aggira con le cuffie, si digita qui e là, ci si fa travolgere dall’ambient(azion)e. Il fenomeno dialogo nel buio condivide munifico il suo successo. E il passaparola ha la sua parte, come testimoniano i post comparsi in pochi giorni su numerosi blog, esondando dall’angusto cercle degli appassionati d’arte contemporanea. Si consideri inoltre che la tematica non è affatto scontata, e il gioco è fatto, visto che pure l’allestimento di Paolo Barbieri e Giuseppe Tassone è assai elegante.
Certo, alla Triennale talora si può scaricare in podcast la guida, mentre in questo caso è il copyright a farla da padrone. Si rammenti poi che alla fondazione torinese non è il caso di andarci in compagnia, poiché chiacchiere, silenzio e sound art non sono sempre compatibili (com’era già avvenuto con la memorabile sezione dedicata alla “musica” nell’ambito della rassegna I moderni allestita al Castello di Rivoli).
Concezione e confezione funzionano a puntino. Anche se vi siete persi le performance inaugurali, con William Hunt che s’esibiva a testa in giù e il campione della drone-music, Stefano Pilia, finalmente in quel di Torino. Silenzio dunque, a costituire il filo da seguire tra nodi sonori. Un silenzio carico d’aspettative, a tratti profondamente “sexy”, come direbbe Nick Cave. Silenzio potenziale, che non tollera descrizioni, specie per figure retoriche. Silenzio impossibile, come chiunque può provare a sé stesso entrando in una camera anecoica, dove l’assillo sarà costituito dal ritmico e sonoro pulsare del proprio apparato circolatorio (aveva in animo di dimostrarlo in questa sede Romeo Castellucci, ma il progetto non ha avuto seguito.) In questa storia attivamente silente, John Cage ha rivestito un ruolo straordinario di “divulgatore” e sperimentatore, contribuendo alla comprensione di concetti e fenomeni apparentemente semplici come suono, silenzio, ritmo, alea, struttura. E tuttavia, come ben sa Bonami -per amor di chiarezza lo ribadiamo-, Cage non è spuntato dal nulla, come uno di quei funghi di cui era a tal punto esperto da partecipare a Lascia o raddoppia?. Cage è stato un Caronte indimenticabile di tradizioni provenienti da altri continenti, e al contempo un manipolatore di esse, della propria e della loro miscela, favorendo l’alchimia sempre in atto che porta la tradizione in traduzione. Ad esempio, Cage si mette in scia d’un Uday Shankar che, nel corso della tournée dell’inizio degli anni ’30 fra l’Europa e gli Stati Uniti, “insegna” a una parte di mondo come, superando la melodia, la musica possa “scolpire nella durata una successione di momenti di silenzio”, recita una recensione coeva a firma di René Daumal.
Si potrebbe obiettare che, rispetto alla volontà destrutturazione del privilegio della vista, è un controsenso la quantità di video in mostra. Ma chi avrebbe visitato una rassegna senza nulla da vedere? Chi si sarebbe sobbarcato l’onere di privarsi dell’illustrazione dei concetti? Non è affatto semplice sollecitare una tradizione. Forse il rumore delle unghie e dei polpastrelli delle bambine di Victor Alimpiev (Summer Lightings, 2004), confondendo lo sguardo, insegnano ad ascoltare. Ad ascoltare le pause fra una scarica e la successiva. Immersi nell’Ocean of Sound di cui parlava David Toop.
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