Negli anni ’80, mentre in Italia imperversava la ricerca dell’Arte Povera e la Transavanguardia rivendicava un piccolo spazio in cui il corpo diveniva veicolo di energie dell’inconscio, in America esplodevano nuovi linguaggi, nuovi modi di comunicare.
Accanto agli affreschi “selvaggi”, al segno duro e rabbioso dei graffitisti più noti –
Haring,
Basquiat e
Le Quinones, già incoronati a Kassel nel 1982 – un artista si faceva strada con un’impronta originale e una poetica colma di riferimenti alla condizione umana e alla ricerca delle radici dell’amore nel mondo moderno:
Donald Baechler (Hartford, 1956; vive a New York).
Un artista che non ha mai creduto agli incidenti in pittura, ma che ha sempre saputo di poter controllare colori e vernici. Presente sulla scena artistica internazionale da oltre venticinque anni, ha popolato i più grandi musei con le sue folle di teste semplicemente abbozzate, con spessi contorni, su fondi che non lasciano spazio ad alcuna identità che non trasmetta un valore universale.
La sua ricerca inizia ai margini della società, vicino ai diseredati, agli ultimi, spesso negli ospedali, dove si chiede il senso delle linee tracciate dai malati di mente, e ritrova la semplicità delle forme archetipiche nella moltitudine dei suoi disegni.
Continua a immagazzinare tracce di volti e passaggi in India, sempre privilegiando il segno semplice dei bambini e l’utilizzo di tecniche miste. Nel corso degli anni insiste nel cercare materiale grezzo da volgere in arte.
Da In Arco è possibile osservare un’interessante mostra di numerosi suoi disegni, completa delle coloratissime serigrafie realizzate nel ‘94. È importante soffermarsi sui notevoli collage su carta e su tela, che ripropongono il suo interesse per la relazione figura/fondo. Baechler non ha mai amato dipingere su un muro bianco: deve ritrovare una storia fatta di pezzi di vita vissuta, di pagine di compiti di bimbi o di altri appunti, immagini ritagliate, documenti e annotazioni che accolgono e racchiudono un’immagine principale.
I grandi fiori recisi dipinti sulla biacca con acrilici od olio non hanno perciò una funzione determinante. Sono un sigillo formale, il timbro e il collante di un’operazione rituale necessaria. Simbolo del suo amore per la vita, tutti gli oggetti riportano a una condizione ideale dell’uomo, che ricompone le tessera del suo vissuto e le incolla con tenerezza nella memoria: “
Appesi nel bianco che è pieno di vita e non è più bianco: è fuga infinita”, scrive Aldo Nove in catalogo. E
Vincent Katz continua: “
Mi chiedo se riuscirò a scrivere un poema stanotte… Ricordo ed è interminabile… Sono intrappolato tra nascita e morte”.
Così come i dipinti di Baechler, intrappolano frammenti di vita e li amplificano in semplici simboli universali.
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E’ l'artista che reinventa la vita con oggetti collocati in uno spazio libero e indefinito.
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