Sull’invito
e sulla copertina del catalogo della mostra
Keep your seat, la celebre sedia
Red and Blue, ideata da
Gerrit T. Rietveld nel 1918, è avvolta da cinghie di
cuoio: un capolavoro dell’avanguardia trasformato da
Christoph Büchel in
Untitled (1994/2004), simbolo di
costrizione e cattività.
I
linguaggi del design e dell’arte contemporanea si intersecano, sconfinano l’uno
nell’altro. È questo l’assunto dell’ampia e ben documentata rassegna, al centro
della quale è posta la sedia, un oggetto d’uso quotidiano, imprescindibile.
Quello che nel design è un corpo reale e concreto, nell’arte diventa assenza e
negazione. In questo senso, il fulcro ideale del percorso è il video di
Simon
Starling,
Four
Thousand Seven Hundred
and Twenty (2007): l’artista indugia sui particolari di una sedia realizzata da
Carlo
Mollino nel 1959,
che diventa l’oggetto di un desiderio “astratto”, conturbante e sensuale.
Lo
spettatore si muove tra le forme e i materiali più diversi (legno, bronzo,
plastica, fibre sintetiche, coloratissime), fra prototipi famosi, ideati dagli
innovatori delle avanguardie, quali
Thonet,
Herbert von Thaden,
Charles Rennie Mackintosh,
Carlo Bugatti, e originali creazioni
contemporanee che suggeriscono atmosfere inquietanti.
Così,
ad esempio, il divanetto
Courbé, in stile neocoloniale, viene trasformato da
Ghada
Amer,
assumendo una valenza pittorica
grazie al filo da ricamo rosso; i manichini neri di
Corpse Sofa (2009) elaborato dall’
Atelier van Lieshout aggettano nello spazio, rendendo
la seduta improbabile;
Butterfly (1954) di
Sori Yanagi coniuga il materiale legno con
una forma leggera, metafora della libertà; i
Troni di
Adolf Vallazza evocano un intreccio di miti e
culture;
Right Of Return (
By Themselves and Of Themselves) (2008-10) di
Marc André Robinson è un girotondo di sedie sospese a
mezz’aria, per la serie delle “sedute impossibili”.
Risulta
particolarmente suggestiva l’installazione di
Giuseppe Gallo,
Eroi (2006), dodici sedie in bronzo,
sottili, altissime, le cui gambe, tutte differenti, ricordano le zampe dei
fenicotteri e palesano instabilità e precarietà.
Vi è
poi una sorta di mostra nella mostra, una sala dedicata a
Chen Zhen, la cui ricerca assume come
assunto fondamentale l’abbandono della dimensione ipertecnologica a favore
della riscoperta della cultura originaria. Tra i lavori esposti si segnalano
Autel
de lumière (1999), un altare costituito da una sedia e da una vasca da bagno ricoperte da
candele, e
Un village sans frontières (2000), minuscole case di candele, realizzate con sedie
provenienti da diversi paesi, a esorcizzare il male del mondo attraverso una
ritualità magica.