Grandi vetrate che danno sui prati, pareti candide e scale in legno. Un luogo chiaro e silenzioso, adatto ad ospitare la collettiva Fuori è un giorno fragile. Un titolo preso in prestito da una hit dei Subsonica, ma anche un riferimento al “fuori”. Un fuori che viene subito dimenticato entrando in questo spazio, che annulla in un attimo la confusione e la frenesia del mondo esterno. Bianche le pareti e bianche la quasi totalità delle opere, realizzate con materiali inconsueti, fragili e leggeri, scelti con cura e lavorati con meticolosità. Opere che non urlano, che vanno cercate e apprezzate con concentrazione. Le materie prime sono fondamentali: stoffe delicate e perline, spugna, parole e carta, molta carta, siano fotocopie di libri che parlano d’amore oppure scontrini. Lavora con la carta Peter Callesen (Herning, Danimarca, 1967) che ritaglia figure di animali, fiori e oggetti e gioca con la loro ombra. Giochi che svelano un lato malinconico: uccelli impigliati nella propria ombra, letti a due piazze che diventano singoli. Testi stampati per la torinese Ester Viapiano (Torino, 1973) che espone sospese in un’ampia sala, come eterei festoni, scatole vuote fatte di ritagli e fotocopie delle lettere d’amore che compongono il libro La scatola nera di Amos Oz. Nel tentativo di dare una forma al vuoto, ma con leggerezza, senza riempirlo.
Un tipo particolare di carta, quella destinata a breve durata degli scontrini, caratterizza il lavoro di Irena Lagator (Cetinje, Montenegro, 1976): figure stilizzate dipinte con la colla su sottili fogli di cellophane, intitolate non caso The non oblivion. Continuano la ricerca su materiali inconsueti anche altri giovani artisti quali Belén Cerezo Montoya (Vitoria, Spagna, 1977), con Sponge dress, un vestito di spugna naturale, splendidamente inutile nella sua funzione di copertura e riparo dal mondo esterno, e Dacia Manto (Milano, 1973) che realizza cartine topografiche immaginarie con veli di zanzariera sovrapposte, forse utili per orientarsi in paesaggi mentali.
Anche Carlo Steiner (Terni, 1957) si pone in bilico tra naturale e artificiale, con un forte richiamo alle forme organiche, nel suo muro realizzato con farfalle sovrapposte e incastrate fra di loro, fatte di ostia. Trionfo delle forme organiche per il giapponese Junko Imada (Kumamoto, Giappone, 1971) che riprende il concetto del bozzolo del baco da seta per creare superfici di dimensioni variabile, teli di foam nei quali si annidano “larve” di ceramica di diverse forme e colori. Infine Irene Rossi (Biella, 1975) recupera tecniche tradizionali e tipicamente femminili per creare piccole sfere sospese, microcosmi fiabeschi realizzati con stoffe delicate e perline, che nascondono al loro interno minute creazioni, come poetiche case di bambola. Apre idealmente la mostra un’opera di Eva Marisaldi (Bologna, 1966) intitolata Sguardi: occhi di pesce in formalina racchiusi in una successione di provette che portano stampata una piccola fiaba. Perché leggerezza non vuol dire superficialità, e tantomeno mancanza di intensità.
paola sereno
mostra visitata il 4 giugno 2006
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