Il velo mantiene inalterati i suoi significati ancestrali. Cambiano i tessuti, la trama, i colori, ma il candore del volto della donna dipinta da
Robert Campin nella prima metà del Quattrocento (
Ritratto di donna, 1435) non è dissimile dalla
AB di
Steven Gontarski (2002), nonostante seicento anni separino i due artisti. Il
Cristo velato di
Giuseppe Sanmartino (1753) e
Lo Spirato di
Luciano Fabro (1968-1973), elaborati a duecento anni di distanza, sono due istanti consecutivi del medesimo processo: il panneggio mortuario copre i corpi nudi, esanimi e abbandonati, testimone dell’evaporare degli ultimi istanti di vita terrena.
Dopo il trapasso, il lutto. Il velo protegge la vedova di J.F. Kennedy dalla curiosità irriverente del pubblico (
Elliott Erwitt,
Jaqueline Kennedy, 25 novembre 1963), così come consente di isolarsi nel proprio dolore la
Woman di Allah di
Shirin Neshat (1996).
Attraverso gli strati di tessuto cangianti e variopinti
(
Kimsooja,
Encounter-Looking Into Sewing, 1998-2002), il velo diventa vitale, induce alla passionalità e all’erotismo, pur mantenendo laconico il suo monito: oltre l’apparenza si nasconde il suo opposto. La vita e la morte, la gioia e il lutto, il presente e il passato, il sapere e l’ignoranza.
Proprio per squarciare il velo del luogo comune, della diffidenza che alimenta l’intolleranza e i deliri xenofobi, questa mostra è il primo passo del progetto triennale
Mediterraneo, organizzato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, con il fine di tessere le “
identità e le differenze che costituiscono la ricchezza del processo di globalizzazione”. Con l’idea che dal patchwork culturale si ottenga un prodotto migliore.
A completare un allestimento raffinato e avvincente, il curatore Andrea Busto propone un catalogo che raccoglie le testimonianze di intellettuali e storici dell’arte di chiara fama, un ulteriore “manufatto” da conservare e consumare come “
dolce liquore. Adoperando adunque a tal effetto questo velo di piacere, in ogni tempo, in ogni loco ed in ogni esercizio” (Baldesar Castiglione,
Il libro del cortegiano, 4,10).