Diciamolo pure, se
il biglietto da visita di Venezia fossero le stazioni del vaporetto, la città
lagunare non sarebbe invasa dai turisti. Per fare una prova empirica
dell’impatto paesaggistico che hanno queste chiatte galleggianti dallo
squallido design anni ‘70, pitturate di un osceno grigio tortora, costellate
qua e là da ruggini salmastre, basta immaginare un’opera del Canaletto storpiata da una di questa
stazioni.
Ma un giorno, quasi
come in una fiaba, arrivò un’artista palestinese, Emily Jacir (Ramallah, 1970; vive a Ramallah
e New York), che alla 53. Biennale di Venezia propose un progetto, Palestine
c/o Venice, che,
se non voleva abbellire queste oscenità galleggianti, per lo meno si proponeva
di dar loro un significato altro rispetto alla mera utilità di sbarco-imbarco.
Nel progetto, la
“esse” disegnata dal Canal Grande attraverso Venezia sarebbe diventata una via
di trasporto bilingue. I nomi delle 21 fermate avrebbero, infatti, dovuto esser
tradotti in arabo in uno scambio culturale e linguistico simile a quello su cui
la Serenissima costruì il suo impero del passato. Una sinergia con l’Oriente
che è visibile in architetture come la Torre dell’orologio e la Ca’ d’Oro, e in
tecniche artigianali usate ancora oggi, come la soffiatura del vetro a tubo,
che tutti pensano inventata a Murano ma che, in realtà, fu importata dalla
Palestina.
Come in tutte le
fiabe che si rispettino arriva, però, il momento del “cattivone”. Ma se nei
libri l’antagonista ha sempre un volto, solitamente dalle caratteristiche
lombrosiane, ossia brutto come la morte, in questa storia invece rimane
nascosto, la sua identità celata. Certo, la decisione di bloccare il progetto
di Jacir, che proprio alla Biennale del 2007 era stata premiata come miglior
artista under 40, dopo che il Comune e la Vela SpA (la ditta che gestisce il
trasporto passeggeri tra i canali) avevano dato tutte la autorizzazioni, puzza
molto di decisione politica. E chissà se dopo la prescrizione dei reati e
l’immunità parlamentare è arrivato il momento della “legittima innominabilità”
fatta ad hoc
per quelli che gettano il sasso, nascondono la mano e rimangono ignoti e
impuniti.
Ma esiste un modo
di aggirare la censura e vedere quello che a Venezia non è stato. Basta recarsi
a Torino, alla Galleria Alberto Peola, dove la personale Stazione mette in mostra proprio il
progetto cancellato.
Oltre alle fotografie del “come sarebbe stato” l’evento veneziano, in
mostra c’è Embrace, una scultura che è un nastro trasportatore, vuoto e circolare.
Metafora di un eterno ritorno e allusione alla situazione del popolo
palestinese, ghettizzato dentro mura che impediscono quasi totalmente la
libertà di movimento dei cittadini.
Ultimo giorno utile per visitare la seconda personale italiana di
Emily Jacir è il 24 aprile, il giorno prima della Festa della Liberazione.
Compito del giorno sarà pensare al concetto di libertà, a partire da quella di
espressione.
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Avrei trovaato strano il contrario, data la crescente ottusità xenofoba, cui non si sottrae neppure la Serenissima. Penso che bisogni far qualcosa.