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Nella vita, come nell’arte, è difficile dire qualche cosa che sia altrettanto efficace del silenzio”: lo scrisse Ludwig Wittgenstein, filosofo tra i più logici e geniali del nostro tempo; e disse anche che il bene, in senso assoluto, è al di sopra della contingenza.
Da Alberto Peola, una collettiva di fotografia si pone al di sopra dei fenomeni temporali. Una visione estatica dell’universo, un invito alla contemplazione, uno scatto che blocca orizzonti distanti, ma accomunati dalla ricerca di un unico infinito, lontano da visioni terrene.
Una ricerca estetica che non vuole e non deve limitarsi a esser tale. Il bello che non si limita a essere gratificazione dell’intelletto e dell’immaginazione. Che pretende di ascendere al rango del sublime. Caratterizzata dallo sguardo attento di sette artisti impegnati a definire quel
quid che unisce grandezza e intensità, distante, vagamente angosciante forse perché irraggiungibile. Non per nulla il sublime pone a livelli superiori ciò che non possiamo possedere diversamente.
Immagini ottenute con un’elaborazione che non è mai solo frutto del rapimento di un istante. Una frazione di secondo a cui si associano fattori di varia natura: contrasti tonali, inquadrature che s’imbevono della magia necessaria a estrarre dal reale piani e linee essenziali. Quelli idonei a conferire l’aura di accesso a un’idea di purezza, di ordine che diventa rigore.
Tutti gli artisti coinvolti, alcuni dei quali ampiamente consacrati dal sistema artistico internazionale, presentano immagini di paesaggi fermi, senza ombra di vita.
Olafur Eliasson, il mago della luce, riesce a moltiplicarne gli effetti anche senza sovrastrutture tecnologiche. Riveste d’argento le sinuose colline della terra di ghiaccio, l’Islanda, sotto un cielo vuoto e dominante, che sfuma le linee all’orizzonte in un’atmosfera surreale.
Anche
Paola De Pietri si concentra sull’infinito: a questo scopo abbassa l’orizzonte e filtra il paesaggio fino a renderlo inessenziale, come se l’immagine fosse stata elaborata con acidi capaci di togliere consistenza alla materia e renderla senza dimensione, senza spessore, superficie piatta in cui anche il colore appare dissolto, sbiadito.
Candida Höfer presenta il suo tema ricorrente, l’interno di due edifici pubblici, esaminati nelle linee di forza della loro composizione architettonica, e sottraendo allo sfalsamento dei piani le tonalità che caratterizzano la profondità, per privilegiare le masse luminose e aggettanti. Un’esaltazione del rigore formale nella sua solennità, una firma aulica della simmetria.
La scelta dello sfondo scuro esalta infine l’unicità del soggetto di
Sophy Rickett, seriale nella sua specificità. Molto meno poetico dei suoi lavori precedenti nella pretesa di un’analisi scientifica, lontana da ogni esperienza sensoriale.