La crisi economica impazza e l’arte riflette.
Non sempre è così all’avanguardia. Ma qui sta il suo valore. In un mondo in cui
capitalismo significa progressismo, nel senso evolutivo darwiniano (vince il
più forte, per cui muoviti a evolverti), l’avanguardia è vista come unico
valore.
Ma chi sta in retroguardia? Chi attenderà i
tartari che non arrivano e che trasformano l’avamposto in luogo di
conservazione? La crisi è una recessione, un ritiro delle truppe, e noi siamo
trasformati in tanti Giovanni Drogo, in attesa di una fine (del 2012 o della
crisi, che differenza fa?). In un mondo orfano dei
grands récits, la fine è anche il
fine.
Questa/o fine riguarda il lavoro concettuale e
semiologico di
Sam Lewitt (Los Angeles, 1981; vive a New York). Il
giovane artista californiano inizia nel gennaio del 2009 disegnando e coniando
50 esemplari di monete, poi distribuite tra colleghi e amici.
From A to Z
and Back è il titolo del progetto, incentrato sulle due
facce della moneta,
una A e una Z, e la dicitura “
Magnus Acerus Erit” (‘ci sarà un grande
mucchio’): il fine è l’attesa di una moneta salvatrice, forse.
L’Italia dei comuni, e prima ancora quella
degli imperatori romani, è stata la patria del conio. Teste di signori, duchi e
papi hanno popolato le monete insieme a massime, motti ed esortazioni su
oggetti che garantivano lo scambio e offrivano un importante strumento di
comunicazione. Lewitt analizza i due aspetti usando manifesti, cataloghi,
tavole alfabetiche e coniando monete il cui valore si formerà man mano che la
moneta-messaggio verrà scambiata.
Lo stesso meccanismo crea il valore dell’arte.
Adoperando la pratica conservativa del numismatico, Lewitt crea un archivio
personale in cui le monete sono poste in raccoglitori, stampate su manifesti e
piccole immagini, messe in teche di plexiglas. Un repertorio minimale, che
cerca il senso di una fondamentale merce di scambio, il cui valore innanzitutto
simbolico sta alla base del capitalismo moderno.
Questo tema è affrontato anche dalla seconda
mostra personale, ospitata negli spazi “inconsci” e seminterrati della
galleria. Qui
Melanie Gilligan (Toronto, 1979) sottopone il paziente
“capitalismo” a ripetute sedute psicoanalitiche, al fine di superare i propri
traumi e ritrovare se stesso.
Capital & Therapeutic Basement, come recita il
titolo, è un trittico video in cui la fiction mira alla catarsi, personificando
un concetto, dando corpo e voce a una realtà astratta che si rivela concreta,
come sono concreti i posti di lavoro smarriti, i miliardi bruciati e le persone
affondate.
Mentre Capitalismo affronta le proprie
nevrosi, magari danzando o ripetendo ossessivamente alcuni concetti-chiave
dell’economia politica, lo spettatore assiste a uno psicodramma dai toni
intimistici, quasi bergmaniano, scritto dall’artista canadese utilizzando
diverse tecniche compositive, dalla redazione di articoli alla scrittura per
fiction, dalla narrativa ai testi di canzoni.
I tre episodi compongono un lungo programma
televisivo che sarà visibile anche su Youtube.