Germano Celant, in apertura del catalogo, definisce le opere a scala monumentale dello svedese Claes Oldenburg (Stoccolma, 1929) e dell’olandese Coosje van Bruggen (Groningen, 1942) come dei “macchinari fantastici”. Oggetti che hanno saputo rendere “inquietanti ed enigmatici, onirici e insoliti gli orizzonti urbani” di diverse metropoli europee, asiatiche e americane.
È una sensazione percepibile anche al Castello di Rivoli, nelle sale affrescate occupate per intero da fiori e fermalibri, piatti e stoviglie, strumenti musicali a misura di gigante e numerosissimi schizzi preparatori che testimoniano la lunga elaborazione concettuale di ogni opera large-scale. L’universo immaginario, fertile e giocoso, dei due artisti, che lavorano insieme da trent’anni, unisce architettura e scultura senza soluzione di continuità, creando spazi che sono “occasione d’incontro e di risonanza segnica per la collettività urbana” (Celant).
A metà tra il candore del Paese delle Meraviglie dell’Alice di Lewis Carroll e quello assurdo, in perenne attesa, dei personaggi beckettiani, gli oggetti di Oldenburg e van Bruggen non si concedono alla spoglia materialità tipica della Pop Art americana più classica, ma veicolano una poesia bizzarra, colta e ludica insieme (perfetto perciò il titolo scelto dalle curatrici Ida Giannelli e Marcella Beccaria: Scultura per caso). Non è tanto l’universo della macchina che li interessa, ma piuttosto la polivalenza dell’immagine tridimensionale e lo scarto di significato che si viene a creare quando si distorcono le proporzioni consuete degli oggetti archiviati nella nostra memoria.
Dropped Flower, scultura realizzata per l’occasione, è in questo senso l’opera più emblematica e affascinante: l’enorme papavero che chiude il percorso espositivo fa sembrare stretta la sala del Castello e invoglia gli spettatori a cavalcarlo, toccarlo e odorarlo. Oldenburg e Van Bruggen stimolano uno stato di spaesamento in chi guarda, cercando di sollecitare l’immaginazione che scaturisce dal contrasto tra il naturale e l’artificiale, tra il ricordo ortodosso della cosa e la sua immanenza incongrua e a volte ingombrante.
Non per nulla, anche nella sua stagione più Pop, Oldenburg preferisce creare opere ex-novo piuttosto che riutilizzare oggetti nel senso del ready-made. Forgia industrialmente nuove icone del contemporaneo attraverso la realizzazione di oggetti dalla presenza morbida e senza angolature, riconoscibili ma non coincidenti alla loro rappresentazione mentale.
Questa capacità di evocare mondi paralleli, che si metamorfizzano durante la traduzione artistica, è la stessa che spinge gli autori a dar vita a performance spettacolari o a lavorare sul tema della musica. Nel primo caso è esemplare la serie di sculture e disegni preparatori esposti ad apertura della mostra per illustrare la complessità de Il corso del Coltello, evento live presentato a Venezia nel 1985 a cui partecipava anche l’amico architetto Frank O. Gehry. Nel caso della musica, invece, la serie di opere realizzate in materiali soffici e caldi pare rendere tangibile l’impercettibile distorsione che le frequenze ondulatorie provocano sulle cose.
Nello stesso tempo, gli strumenti musicali permettono ai due artisti di giocare con il passato, manifestando la loro libertà nel citare la storia dell’arte. In Risonanze da J.V. (2000), Johannes Vermeer è il protagonista assente di un’installazione che dialoga con le due celebri giovani donne (“in piedi accanto a un virginale” e “seduta a un virginale”) della National Gallery di Londra. L’attenzione alla luce come elemento architettonico tipico della poetica di Vermeer, acquista qui un valore narrativo: un “fermo-immagine” in cui, secondo Van Bruggen, il vero soggetto è l’amore. Quello stesso amore, tra il fantastico e l’epicureo, che circola ovunque nelle creazioni dei due artisti.
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