A pochi mesi dall’esposizione svoltasi a Palazzo Bricherasio, si rinnova per il pubblico torinese la possibilità d’incontrare la civiltà tibetana e nepalese. Nella mostra al Museo di Etnologia sono infatti presenti oggetti d’arte e d’artigianato sia del Tibet che del Nepal, paese ad esso vicino e a cui molto deve per il suo sviluppo culturale. Nella prima sala alcuni oggetti di uso quotidiano, come il vasellame, ben sottolineano affinità e differenze fra questi popoli; più pesanti quelli nepalesi, essendo stanziali, più leggeri quelli tibetani, che spesso si spostavano.
L’arte in Tibet era intimamente legata al culto; l’artista doveva possedere un’adeguata conoscenza dei fenomeni religiosi ed era quindi guidato da un monaco, se non era lui stesso un religioso. Realizzare un’opera d’arte era innanzitutto un’esperienza mistica e doveva stimolare nel fedele una riflessione o un coinvolgimento nell’evento religioso; per questo era indispensabile il rispetto di precisi canoni iconografici, ma anche iconometrici (le proporzione dei corpi, ecc.). Ne consegue una continuità iconografica e in parte anche formale nel corso dei secoli, lontana dalle frequenti evoluzioni dell’arte occidentale. L’artista tibetano riesce però spesso ad evitare di cadere nello stereotipo grazie ad una sincera partecipazione spirituale, visibile sovente nelle raffigurazioni del Buddha. Fra quelle presenti a Torino sono da segnalare specie un Buddha
Singolare è poi il realismo raggiunto nei ritratti di asceti o grandi maestri, come il 4° abate di Ngor (XV secolo). In queste statuette bronzee erano posti dei mantra scritti su strisce di carta, talora anche dei pezzi del cranio dell’individuo. Pregevole è la maestria degli scultori tibetani nella produzione di statuine di divinità, che risultano spesso consumate perché sfregate dai fedeli; da notare una minuscola Maia con Buddha fanciullo in braccio, ricca di dettagli a dispetto delle ridotte dimensioni.
Non mancano diverse tangke (dipinti su stoffa) tibetane e nepalesi, con immagini di mandala o di deità terrifiche, in cui risalta un gusto decorativo e narrativo assai vivace. Piace ricordare un pezzo eccezionale per il suo soggetto (più che per la qualità modesta), eseguito in Nepal verso la fine dell’Ottocento, in cui compare la Regina Vittoria che danza con Siva. La sovrana è ripetuta diverse volte, con abiti orientaleggianti di colori differenti, intenta in una sorta di girotondo con il dio indù, nell’iconografia tradizionale della danza di Siva con le pastorelle, con un effetto di comicità forse involontaria.
Fra i manufatti lignei colpiscono in particolare delle leggiadre Ninfe dei boschi (Nepal, XV-XVI secolo, frammenti di una porta) e alcuni oggetti di uso rituale, come un Khatvanga con la rappresentazione di tre teste, la prima normale, la seconda in putrefazione, la terza scheletrica. Come fosse una specie di variante tantrica del nostrano memento mori.
stefano manavella
mostra visitata il 19 febbraio 2005
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