Organizzatore della
Via del Sale – manifestazione d’arte contemporanea tra Piemonte e Liguria che ha visto partecipare, tra gli altri,
Tony Cragg e
Nicola De Maria – il Fondaco prosegue la stagione con una collettiva sul tema dei corpi, quelli fluidi. Sono infatti i lavori delle tre artiste in mostra, così diversi fra loro per ricerca e linguaggio, a costituire la densità del percorso espositivo che, tra colore e materia, si snoda sui due livelli della galleria.
Naturalmente inanimate, le opere paiono però corpi in crescita e in movimento. I
Tuffi di
Stefania Ranghieri (Milano, 1963), ad esempio, sono materializzazioni di superfici liquide in cui compaiono i segni concavi di un simbolico affondo di sassi. Sono rigidi specchi d’acqua realizzati in plexiglas, materiale che l’artista forgia e plasma aggiungendo pigmenti colorati. In un vortice pittorico dai toni arancio, blu e verde, le superfici sono però restituite considerando la morbidezza dell’acqua che, se calma e non in tempesta, è anzitutto liquido primordiale che accoglie, scalda e culla. Fili di corda dipinti perforano infine le tavole, a suggerire l’ipotesi vegetale di uno stagno urbano; citazioni di una natura che cresce anche in luoghi al margine, in cui si accumulano scarti industriali.
Mentre il colore è il tema principale delle tele di
Lara Del Aor (Cognac, 1950; vive a Parigi), il nero è la materia di Orietta Brombin, intesa quasi come esaltazione del suo contrario, cioè della luce. Nelle tele della serie
Atopique di Del Aor compaiono i soli colori primari. Pittura così semplice e a tratti anacronistica, perché se da un lato le tele ripercorrono le origini del colore stesso, dall’altro vogliono diventare simbolo di spiritualità attraverso l’aggiunta di minuziosi punti interrogativi di color oro. Gesti che, ripetuti così ossessivamente, trasformano i buoni presupposti della ricerca cromatica in una serie di arazzi damascati.
Intensa e raffinata, invece, è la ricerca di
Orietta Brombin (Torino, 1960). L’artista sembra reinventare alfabeti a partire dalle relazioni tra i materiali e le forme. Nei lavori in mostra, un trittico narrativo dal titolo
Found in Translation, Brombin traduce con un suo personale alfabeto di segni tavole meccaniche provenienti dall’officina paterna, luogo precluso all’artista dai tempi dell’infanzia. Recuperare quella materia, prima di tutto emotiva, anche per il ricordo di un “pozzo nero”, cioè di un bidone colmo di materiale petrolifero – anch’esso proibito – significa per l’artista penetrarne l’essenza in termini visivi, tattili e olfattivi.
La traduzione avviene con fori su fogli di carta catramata che, fotografati e allestiti in una composizione di dodici tavole, diventano personali mappe celesti. Secondo un processo di sottrazione simile a quello di
Thomas Ruff nella serie
Sterne, a una cosmologia reale Brombin sostituisce però l’immagine della Luna ripresa dai versi di Cyrano de Bergerac, qui riscritti su riquadri coperti di segni di grafite.
L’intera mostra è allora stimolo per un viaggio nell’immaginazione corporea, dentro e fuori, verso l’infinitamente lontano.