“
Organogramas è un
epifonema, ossia una riflessione che si può evincere da quanto la precede e che
completa il concetto generale cui appartiene”. Così
Dionisio González (
Gijón, 1965; vive
a Siviglia) spiega la sua prima personale in una galleria italiana.
Il percorso dell’artista spagnolo dal
nome predestinato (cos’altro potrebbe fare uno che si chiama Dionisio?) parte
dalla vetrina su strada della Galleria Novalis, in cui viene presentata la
prima fotografia della serie
Halong, e continua al piano superiore, dove
si trovano gli altri lavori che prendono il nome dall’omonima baia vietnamita.
Un luogo idilliaco, dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità nel 1994 e poi
nel 2000, dove piccole comunità vivono in case galleggianti circondate da una
natura vergine.
Nelle immagini di questo scenario
incontaminato González inserisce elementi perturbanti. Sono strutture abitative
ipermoderne in cemento e vetro, del tutto aliene all’ambiente circostante. Così
rielaborate, le opere sembrano i rendering per il progetto di un villaggio
turistico commissionato dal Club Med a
Daniel Libeskind.
La cosa fondamentale è che queste
strutture non si sostituiscono, ma si aggiungono alle minuscole abitazioni dei
pescatori locali. González mette in mostra il lato subdolo e inquietante della
globalizzazione. Frutto di una strategia distorcente, che fa percepire il nuovo
importato dall’Occidente non come l’imposizione che è, ma come un’opportunità.
La sirena irresistibile è la chimera di avere più scelta.
Così, quando ci si sveglia dal sogno
(o dall’incubo) e si capisce che le scelte fatte non sono state spontanee, la
mente prende coscienza di un concetto terribile: quello di abusivismo. Ecco il
secondo fulcro della mostra, che ne tira subito in ballo un terzo, quello
dell’oscenità.
Dice l’artista: “
Dopo il
riconoscimento dell’Unesco, la Baia di Halong è minacciata dalla sua
esposizione allo sguardo. Questo perché, come dice Foucault, il potere non
tollera regioni d’ombra”. Le costruzioni oscene che González inserisce
nei suoi lavori sono un grido d’allarme. Un monito che, nella nostra patria dei
condoni, invita a vigilare attentamente, in un’epoca in cui la visibilità
assoluta non è affatto garanzia di sicurezza totale. Anzi, lo scenario da
panoptikon creato dalla globalizzazione si trasforma in un abusivismo talmente
generalizzato da essere accettato.
Chiudono la mostra
Thiking Hanoi e
Organogramas.
Un video sul caotico traffico della capitale vietnamita e un organo
dalle cui 74 canne, composte da tubi di scarico, escono le note di una
sinfonia, diretta da un braccio robotico con tanto di bacchetta, per motori e
gas di scarico (finti, è acqua nebulizzata).
Ma l’epifonema di González non si
chiude qui. La riflessione sulla globalizzazione e sull’impatto dell’uomo sulla
natura dovrebbe sensibilizzare lo spettatore al punto che, uscito dalla mostra
e respirata una boccata della seconda aria più inquinata d’Italia, corra subito
a permutare l’auto con una bici. O forse è più facile comprare una mascherina.