Fine intellettuale votato all’interdisciplinarietà, Mario Cresci (Chiavari 1942) ha collaborato a lungo col “Domenicale” de Il Sole 24 Ore, ma la sua attività fotografica è relativamente poco nota, dato non inedito per la fotografia sperimentale italiana.
Cresci esordisce in modo analitico con la serie Geometria non euclidea (1964-66), ove palese è il riferimento al quadrato di Malevitch, come testimonierà Pensando a Malevitch della serie Accademia (1994). Un lavoro in bianco e nero a cavallo della grafica e sostanziato dallo studio della fenomenologia della percezione (Cresci conosce le opere di Merleau-Ponty), che però si rivolge immediatamente a un organico ambiguo e a-mimetico, come in Cambiamento di forma (1969).
A fianco di questi “studi”, col gruppo “Il Politecnico” Cresci svolge un’attività di ricerca socialmente connotata a Tricarico (Matera), luogo di riprese pasoliniane. Subentrano le figure, alterate e smaterializzate all’interno di un ambiente perfettamente definito (specie la serie Interni mossi, 1966-67, debitrice della lezione di Mario Giacomelli). D’altra parte, sempre in Basilicata, Cresci strizza l’occhio al Pop romano e in particolare a Schifano, come in Fotogrammi d’affezione (1967), titolo che rimanda agli “oggetti d’affezione” di Man Ray. Il decennio si chiude con Environnement (1969), installazione realizzata alla galleria “Diaframma” di Milano, con uno sforamento nella tridimensionalità del design. Al contempo, Cresci sperimenta la forma a “tazebao”, presentando lavori a forte connotazione politica, come le Esercitazioni militari (1968) e Valle Giulia (1968).
Seguono le serie Interazione e Rotazione (entrambe del 1971), ove non si tratta più di alterare forme in maniera analitica o soggetti in ambienti statici, ma di agire sul contesto stesso e sul punto di vista, sullo spazio rappresentato, in un’ottica che per certi versi rimanda alla performance vissuta dietro l’obiettivo. In questo senso, lo scatto Linea d’ombra, della serie Barbarano Romano (1978-79) è esemplare, poiché la silhouette di Cresci compare solo come ombra nel momento in cui fa scattare l’otturatore. Discorso simile e diverso vale per il recente Vedere attraverso (1997), dove il gioco di sguardi parzialmente ostruiti rimanda al dialogo fra John Hilliard e Jemima Stehli. Una riflessione che, in senso foucaultiano, investe il soggetto e la sua morte, una crisi che – come ricorda Alberto Veca – era stata interpretata magistralmente dal “Nouveau Roman”.
Gli anni ’80 sono consacrati al paesaggio, con un approccio al colore che si avviterà su sé stesso nel corso degli anni, specie nell’ambito de Le cave (2001) di Matera. Il decennio successivo vede un Cresci docente (la serie Accademia, 1994, evidenzia la stima di Cresci nei confronti di Giulio Paolini), mentre dal punto di vista artistico compie una sorta di ritorno alle varie tappe del proprio lavoro, modificando e reinterpretando le proprie opere.
Fra i lavori più recenti, va ricordata almeno la serie Le stanze (2003), autentica summa delle sperimentazioni cresciane. Infine, all’ingresso della mostra sono visibili anche tre suoi video: Cronistorie (1970), interpretazione de martiniana del “folklore” lucano, Acqua di Parma (2002) e I corti svedesi (2002).
Segnaliamo in conclusione l’intervento a catalogo di Roberta Valtorta, approfondito studio dell’intero percorso di Cresci; e un plauso alla Gam, che forse sta lentamente risalendo la china del contemporaneo.
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