Mentre Torino ha ospitato 10mila architetti per il XXIII Congresso Mondiale di categoria, in parte dedicato a temi come “
le città in crisi e la speranza dell’architettura”,
Enrica Borghi (Premosello Chiovenda, Verbania, 1966; vive ad Ameno, Novara) espone il risultato di una riflessione sulla città maturata negli ultimi due anni di lavoro in opere ancora inedite in Italia, se si esclude la partecipazione di una di esse alla mostra
Junkbuilding alla Triennale Bovisa.
Patchwork City è il titolo di questi lavori, che sono città-coperte, città-plaid, mosaici “molli” fatti con scampoli di plastiche filate, ricamate e cucite insieme, sulle quali s’intrecciano scatole di tetrapak bianco non ancora stampato. Il tutto a definire versioni povere e liriche di plastici architettonici disegnati dall’artista, che per l’occasione veste i panni dell’urbanista. Generosa nel concedere ampi spazi attorno alle abitazioni e ottimista nel progettare città con sfolgoranti grattacieli bianchi e azzurri fiumi intatti, Borghi realizza questi suoi “pensierini” sulla città ideale a partire innanzitutto dall’uso dei materiali e di pratiche esogene rispetto alla progettazione architettonica, ma molto usate dall’arte femminile degli ultimi anni.
Enrica Borghi è nota per la sensibilità ecologica e il recupero di pratiche “domestiche”, come appunto il ricamo e il cucito, che applica ai materiali del packaging moderno (plastiche, allumini, carte stagnole e tetrapak) al fine di rivisitare una poetica del “fare domestico” in termini simbolico deduttivi, re-iscrivendo il taglio e il cucito di sartoriale memoria dentro la creatività artistica.
Da diversi anni ha scelto come propria “città ideale” il minuscolo Comune di Ameno (ottocento anime), dove invita artisti e intellettuali da ogni parte d’Europa. Un rifugio, un eremo che è anche una sfida aperta lanciata contro il luogo comune dell’artista urbanizzato, che vive in diretta le vicissitudini della metropoli, i suoi cambiamenti e i suoi drammi. Borghi è nota per aver creato abiti preziosi intrecciando strisce di sacchetti dell’immondizia o incollando bottiglie di plastica, come nell’opera
Regina, acquistata dal Castello di Rivoli, tappeti con carta di cioccolatini et similia.
Patchwork City è l’ennesima prova di un approccio all’arte che sfrutta la “pelle” degli elementi che consumiamo, come una risorsa dalle intrinseche qualità di luce, colore e consistenza.