La situazione dell’arte concettuale in Cecoslovacchia si delineò all’inizio degli anni ’60, caratterizzandosi, come spiega Juraj Carny, “
per il trascendere l’ambito puramente concettuale, approdando all’happening e alla performance”. Le tragiche vicende politiche che segnarono il ’68 e che culminarono nella repressione e nella negazione della libertà, costrinsero gli artisti a uno stato di isolamento e di emarginazione. Pertanto risultò difficile, se non impossibile, mostrare al pubblico le opere nei centri deputati dell’arte, quali gallerie, accademie e musei.
Obiettivi primari della ricerca furono il confronto tra Europa Occidentale ed Europa Centrale, il superamento delle barriere ideologiche e sociali, il bisogno di evidenziare il rapporto tra mito e banalità quotidiana. Alcuni di questi artisti sono stati ingiustamente obliati. Si può dunque comprendere la rilevanza della mostra
Between Concept and Action, che si propone una ricostruzione filologica, oltre che estetica, presentando, accanto alle figure più note, personaggi meno conosciuti e tuttavia meritevoli di essere adeguatamente ricollocati entro il contesto culturale nel quale ebbero un ruolo rilevante.
La rassegna è suddivisa in due parti: la prima, quella storica, esamina le premesse del Concettualismo e il suo progressivo sviluppo negli anni ’70; la seconda spazia dagli anni ’80 a oggi. Pertanto, lo spettatore si confronta con la ricostruzione di cinquant’anni di ricerca artistica. In una rassegna tanto ampia ci si deve necessariamente limitare a un discorso di carattere generale, con alcune segnalazioni.
Di notevole interesse risultano i lavori di
Stano Filko,
Julius Koller e
Jiri Kovanda, che hanno saputo consolidare e rendere attuale nel tempo la loro ricerca. Il primo assume come punto d’avvio lo spazio bianco, elemento che postula uno spazio infinito, puro ed emozionale. Valga per tutti il lavoro storico
The White Altar (1960), che evidenzia, attraverso lo specchio, una forte carica simbolica. Koller sviluppa il concetto di anti-happening, traendo pretesto dall’oggetto quotidiano, ed elabora una sorta di antipittura; Kovanda costruisce le sue performance su gesti e sfumature minimali.
Di
Michal Kern ricordiamo l’environment naturale dal quale preleva tracce, di
Rudolf Sikora le inquietanti immagini fotografiche, di
Otis Laubert la reazione alla perdita di umanità del regime, come dimostra l’intensa immagine
Slovak by one foot. Czech by the other one (1973), nella quale si palesa la difficoltà di un’appartenenza politica e sociale.
Tra le opere storiche va segnalata l’installazione
A White Space in a White Space (1974), realizzata da Stano Filko,
Milos Laky e
Jan Zavarsky, che evidenzia l’intento analitico e formale della ricerca.