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Noi non offriamo contorni netti all’aria, alla luce. Non abbiamo accettato di essere disegni. Le spugne incendiate dei nostri corpi emettono facole, macchie, getti di materiale tormentato, in devastazione, in rigenerazione, protuberanze esplosive, brillamenti”, scrive Antonio Moresco nella seconda parte dei suoi
Canti del caos. Questo sembrano confessare, con un soffio di voce, le decadenti creature di
Nicola Samorì (Forlì, 1977).
Attraverso lunghi e meticolosi processi di sovrapposizione e detonazione, scomposizioni, tagli, graffiature, coagulazioni, la pittura dell’artista diviene una seconda pelle che, fertile e virulenta, riveste la figura umana. Sboccia aprendosi in brecce, squarci e ferite che riportano alla caducità imprescindibile della vita terrena, al logoramento dell’anima e della sua corazza organica.
Un derma riflettente, sedimentato e mummificato, corroso, innestato, in metamorfosi continua, attaccato nell’iter procedurale da combustioni, ossidazioni, sporcature e cancellazioni, applicazione di acetati, inchiostri e polveri. Un tessuto multistrato che si adagia sul corpo, evidenziandone le violenze subite, ma che per contro lo carezza e lo indennizza immortalandolo, ne nobilita il dolore, lo svela e lo rende comprensibile. I volti, gli arti, i busti sono feriti e poi bendati, deflagrati e contemporaneamente curati con l’unguento cromatico, integrato da ruggini, terre, colle.
Cariche di un’irresistibile e spaventevole sensualità, le opere di Samorì sono
nature morte umane sulle quali affiorano mappe, venate da reticoli e percorse del gesto, canali in cui sembrano scorrere fluidi cristallizzati che trasportano particelle di vuoto, malattia, tormenti.
I confini del tangibile si espandono, si allungano in striature dense, i tratti del modello originario si trasformano in vagheggiamenti alieni. Frammentate teste decapitate e crani spaccati sono contornati da fondi neri, come galleggianti in una formaldeide virtuale che rende ignoti gli scenari (
Clitennestra, 2008). Volti di donna dagli occhi serrati sono sezionati da griglie e le porzioni geometriche che le compongono paiono
pixel materici d’incrostazioni e crepe (
Smilla, 2008).
Prerogativa della personale è l’interscambio tra diverse modalità espressive: la pittura, in primis, coadiuvata dalla fotografia – sebbene non venga mai utilizzata esplicitamente -, dalla scultura e dal disegno. Su un’intera parete campeggia un’installazione formata da numerosi acquarelli su carta fermati semplicemente per mezzo di chiodi: sagome variegate, umanoidi, animali, porzioni di arti.
In un piccolo spazio appartato respirano silenti faccine infantili in cera, vere e proprie candele che immediatamente si rivelano un esplicito omaggio a
Medardo Rosso (
Enfant juif, 2008, calco da opera originale). Di notevole impatto gli intensi
moulage in gesso e creta, sempre eseguiti partendo dall’alterazione progressiva dei tratti somatici di personaggi appartenenti alla cerchia familiare dell’artista.