Alla Gas Gallery è serata di inaugurazioni. Un’automobile, parcheggiata sotto i portici antistanti l’ingresso, fa andare i tergicristalli. All’interno dell’abitacolo due manichini, simulacri di un uomo e di una donna, ripetono un dialogo sconnesso, attraverso un video proiettato sui loro volti. È l’installazione-diorama della coppia
Daniel Glaser (Oletn, 1963) e
Magdalena Kunz (Zurigo, 1972), che per la loro prima personale torinese hanno portato tre diverse ambientazioni a impianto
non sense. I due artisti svizzeri ripropongono echi di frammenti e di immagini già viste. Già considerate come arte in altra sede. Ma quel che più attira, fuori da questo gran muoversi di visi senza profili, di corpi statici e riversi, usati per monologhi senza pensiero stabile, quel che più colpisce è un breve accenno, uno stazionare tremulo di alcuni scenari, viste urbane in bianco e nero, appese alle pareti.
Questo che sembra uno strano accostamento di opere e scenografie, una sovrapposizione di idee, è in realtà la personale dell’artista sloveno
Miha Štrukelj (Ljubljana, 1973). Le due esposizioni, inaugurate contemporaneamente anche se non complanari all’interno degli spazi, lasciano un segno diverso nel visitatore, che non può sbagliarsi a lungo. Non può confondere la natura e gli intenti rivelatori di ciascuna delle due mostre. Nelle composizioni a tecnica mista (dal disegno a matita all’acquarello, dal dipinto all’assemblaggio di pezzi Lego), Štrukelj non trasmette mai l’idioma codificato (inteso come linguaggio del territorio pittorico) della rappresentazione.
L’artista riproduce quello che non deve esserci così com’è o com’è stato. Per essere meno criptici, Štrukelj muove il proprio occhio come uno strumento indagatore, già cieco, perché costretto a confini e contenzioni. La rappresentazione rende la vista un dispositivo architettonico che però annacqua e disperde, al posto di condensare e interpretare il Reale. Dunque, si è in balìa di un tratto che non trascende verso l’astrazione ma che non aderisce mai perfettamente alle linee catturate. Questo perché, prima di ogni visione, permane uno sguardo incerto, inesatto e conscio dell’improbabilità del proprio registro scopico.
In
Ground Zero come in
Friedrich Strasse, chi guarda cerca a fatica. Cerca nei segni invisibili i segni marcati appena ai bordi della città, delle sue strutture, dei palazzi, dei marciapiedi e della sua gente. Uno sguardo che in-dividua l’umanità, ormai fatta di fisionomia approssimata, e la scompone, geometrizzandola, tassellandola secondo i dettami lineari di una vera e propria griglia.
Quel reticolato che si stende imperturbabile dietro ogni lavoro appeso, modificando proporzioni e modularità, per tante volte quante sono le opere. Senza pretesa organizzativa. Col solo intento di scomporre e disperdere nuovamente quel che non ha mai avuto unità sicura.