Prima personale italiana dell’artista Andisheh Avini (New York, 1974), americano di origini iraniane, che, percorrendo le proprie radici persiane, riprende alcuni stilemi dell’arte islamica, mescolandoli e adattandoli ad elementi della cultura occidentale. Da questo connubio emerge un Io precario, senza una fisionomia definita e una propria specificità, un soggetto anonimo perché privo di identità.
Il lavoro esposto rievoca il generale pregiudizio islamico verso la raffigurazione, che viene sublimata nella calligrafia. In una chiave contemporanea e personalissima, l’arte calligrafica tradizionale si trasforma in una scrittura al limite dell’illeggibilità, in una grafia ridotta al minimo, stilizzata e sfocata da spruzzi di colore. In una serie di tele bianche l’artista interviene con una scrittura rossa, vergata con un colore prodotto unendo al pigmento sangue di pecora. Le tele si strutturano secondo una composizione grafica derivata dall’elaborazione della lingua Farsi, in cui il tratto, che originariamente nasce per dare forma visiva alla parola divina, non rappresenta un elemento decorativo aggiunto, ma è la struttura portante dell’intera composizione. Come nell’informale segnico , il valore calligrafico del segno supera il significato semantico e acquista un’identità formale e visiva non convenzionale. Frasi indecifrabili diventano tracce di un immaginario pittorico e formale, che sembra sottendere significati spirituali e indicare nuovi percorsi mentali. L’utilizzo del sangue riprende, inoltre, tematiche del mondo islamico, in cui il colore rosso, fin dagli albori di origine animale, si collega a pratiche sacrificali, atti religiosi della stessa intensità dell’attività calligrafica, uno dei più alti gesti di devozione e di fede.
Le tele sono accompagnate da una serie di miniature che prendono spunto dal concetto di assenza figurale e di anonimato proprio dei precetti religiosi musulmani. Le tradizionali miniature persiane vengono alterate e modificate attraverso una logica dell’assenza
Lo stesso principio di sottrazione regola anche le composizioni montate attraverso disegni e colorati ritagli di giornali, in cui la proliferazione di soggetti e volti contrasta con il vuoto della sagoma centrale, simbolo di un’identità in bilico tra occidente e oriente, culture divergenti, in cui l’Io rimane inevitabilmente schiacciato e annullato. La potente simbologia persiana perde significato se estraniata dal suo substrato culturale e spirituale. L’assenza della figura diventa allora spazio per l’idea di morte : ciò che a prima vista sembra semplicemente un ritaglio vuoto si rivela poi essere la sagoma di un suicida, così come materiali con motivi persiani sono in realtà il rivestimento di sculture a forma di teschio.
Il conflitto tra culture, proprio del background americano-iraniano dell’artista, è sentito in primo luogo come conflitto interiore e, pertanto, perdita di ogni riconoscimento identitario, in cui l’idea di morte, gridata da una pellicola adesiva di un colore troppo accesso per essere verosimile o nascosta tra frammenti di carta di altre storie, simboleggia l’unica possibilità di riscatto per l’individuo.
ilaria porotto
mostra visitata il 1 giugno 2006
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