Joseph Kosuth (Toledo, Ohio 1945. Vive fra New York e il Belgio) è di casa nelle piazze italiane: che sia Napoli o la Torino di Luci d’artista, il guru dell’arte concettuale non lesina i propri interventi nella penisola.
La vicenda del concettuale è ormai storicizzata, con le consuete diatribe in merito alla primogenitura. Alcuni indicano in Sol LeWitt il logoteta dell’”arte concettuale”, facendo risalire la vicenda al 1967. Altri, con un certo buonsenso, hanno tenuto a specificare che lo stesso LeWitt ebbe a fare dichiarazioni poco “in linea” quando, appena due anni dopo, richiamò supposte esperienze mistiche che sapevano troppo di Romanticismo. Così la palma passò nelle mani di Kosuth, nascente astro teorico oltre che artistico. Non è la sede questa per addentrarsi in questo dibattito, resta il fatto che Kosuth si è concentrato in una radicale interrogazione dello statuto dell’arte, assumendo un angolo prospettico di grande dignità filosofica. La sua adesione a un neokantismo di marca “analitica” e wittgensteiniana è evidente sin dal triplo saggio Art
after Philosophy (1969), ove il riferimento non è tanto la Critica del Giudizio, nella quale è questione più specificamente di estetica filosofica, quanto la Critica della ragion pura e dunque la parte più teoretica del sistema kantiano. In quest’ottica, Kosuth disloca quell’impianto logico in ambito artistico, giungendo a sostenere un apriorismo che garantisce l’auto-referenzialità della proposizione-opera. La serie nella quale si esplicita con maggiore evidenza questa riflessione si intitola One and Three, ove ogni volta è esposto l’oggetto “fisico”, la sua riproduzione fotografica in scala 1:1 e la definizione estrapolata da un dizionario. Insomma, una visualizzazione dell’annosa questione della referenzialità linguistica, ovvero del rapporto fra mondo, significante e significato. Questione che, se non fosse già abbastanza complicata, si complessifica ulteriormente nel momento in cui, per esempio, il “mondo” considerato è una fotografia – caso presente nella serie di Kosuth – o lo stesso vocabolario.
Alla galleria di Sergio Bertaccini è/sono esposto/i One + Nine, a Re-Text (2003), nove brani di filosofi occidentali a confronto con un’unica dichiarazione di de Sade, il marchese noto per le sue scorribande nei territori estremi della sessualità. Ogni volta i brani pongono l’accento su un particolare aspetto della frase sadiana e tale rimando è evidenziato dalla complementarietà dei colori di fondo e testo, nonché dalla posizione che assume la seconda serigrafia rispetto a quella ospitante il pensiero sadiano. Una riflessione sul nodo politica-potere-finanza che non può lasciare indifferenti, ben conoscendo anche lo schieramento marxista dell’artista. Inoltre è visibile un suo “classico” neon, intitolato M.V.V.A.F. (2003), acronimo del latino “Mobilitate viget, viresque acquirit eundo”.
L’obiezione, triviale quanto si desideri, viene da sé: come evitare un elitismo così palese, in un’esposizione in cui, per comprendere il senso dell’operazione, è necessario almeno conoscere inglese e latino, oltre a possedere una solida formazione filosofica?
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