Il castello di Rivara si veste di tre mostre importanti.
Architetture sensibili è una rassegna di innumerevoli opere che parlano col linguaggio di artisti diversi, descrivendo il concetto di
urban landscape. Un sottile
fil rouge le fa coesistere in modo armonico e la metropoli diviene il soggetto principale per esprimere la quotidianitĂ .
In
Palazzo sventrato,
Manuel Felisi riesce a carpire gli eventi drammatici, restituendoli all’osservatore con la stessa struggente sensazione.
Fabio Giampietro, in
Vertigo, si avvale di una prospettiva aerea e vertiginosa: i suoi dipinti sono in grado di catalizzare il corpo e lo sguardo all’interno della scena rappresentata. La mostra è arricchita da alcune installazioni: le sculture realizzate con fibra ottica di
Carlo Bernardini si compenetrano con le realizzazioni di
Barbara DePonti, da cui emergono mirabili incursioni di luce.
Il connubio dĂ vita a
Interazioni strutturaspazioluce. D’impatto la scultura di
Enzo Guaricci, che lambisce un vasto spazio della sala. Due matite sono connesse da un tubo di gomma, che restituisce allo sguardo la stessa fluidità dell’inchiostro. La comunicazione come intento primario è lo spirito che anima il lavoro.
Potreste venire domenica pomeriggio a prendere un bicchierino da noi è una rassegna di alcune fotografie di
Bruno Locci, intitolate
Signori e signore qui si dà inizio al gioco (1950-73) e che ritraggono volti di medio borghesi colti nella loro disarmante ipocrisia. Maschere di un cliché, ostentano sorrisi gelidi e vacui.
Infine,
Metamorphoseis di
Alessio Delfino è l’evento clou che assurge il ruolo di cuore pulsante dell’antico castello. Si tratta di un work in progress composto da alcune fotografie che ritraggono mannequin e donne comuni di nazionalità diverse scolpite in un identica posa. L’artista dipinge con l’oro i corpi nudi delle modelle. La pittura si fonde nell’immagine che ambisce allo status di scultura.
Fotografie a grandezza naturale carpiscono lo spazio, i corpi dipinti acquisiscono la plasticità scultorea che li rende eterei e immortali. Donne che divengono dee dell’Olimpo, volti che acquisiscono una catartica bellezza, che esula da ogni canone estetico. Gli occhi socchiusi inebriano l’osservatore di un’armonia assoluta. Eppure, questi corpi che paiono uguali lo sono solo in apparenza, poiché al fruitore attento non sfuggono i particolari nascosti che evidenziano la differenza fisica e ancor più quella dell’animo. Si percepiscono le intime tensioni: ognuna racchiude in sé una storia che si dischiude, nelle pieghe della pelle così come nelle forme sinuose del corpo. Gea, la madre terra, è colei che emana l’aura creativa.
Alessio Delfino conosce le sue muse e, attraverso un’indagine scrupolosa, trova nelle loro radici la chiave per interpretarle. A ognuna di esse destina il nome di una dea che rispecchia le peculiarità caratteriali di colei che ritrae. Una ricerca che si spinge nei meandri della psiche. La studiosa americana Jean Shinoda Bolen aveva evidenziato in
Le Dee dentro le donne che alcuni elementi caratteriali femminili potevano essere ricondotti agli archetipi delle divinità greche. Gli stessi propositi si ritrovano nell’arte di Delfino.
L’artista però compie un passo in più, come si evince dall’installazione: materializza una figura che prende vita dal compenetrarsi di tutte le muse ritratte. Diviene tattile ed esistente. Sul supporto è proiettata la metamorfosi del corpo che muta con l’evolversi del tempo. La sagoma di luce diviene reale e al contempo si sdoppia in una simmetria speculare.