Dicendo “design” si pensa a un mondo di oggetti, e gli oggetti con marchio Olivetti sono, naturalmente, moltissimi, alcuni entrati a pieno diritto nella storia dello stesso design. Chi ha vent’anni può sorridere di fronte a calcolatori con cento pulsanti, a macchine per scrivere ticchettanti, a calcolatrici abnormi.
Chi ha vent’anni non può però non apprezzare
Valentine, che è sì una macchina per scrivere, e dunque una cosa misteriosa e fondamentalmente inutile se paragonata a un pc, ma è anche un bellissimo oggetto. Chissà quale effetto provocò al momento del lancio, nel lontano 1969, così leggera e maneggevole e pop, rossa fiammante in un mondo di uffici verdini e grigetti; una macchina per scrivere con un colore rivoluzionario e un nome sexy, ammiccante.
Per chi ha vent’anni e la storia dell’Olivetti la conosce poco o niente, per chi è nato con un laptop sulla scrivania, la mostra che Torino dedica a
Olivetti, una bella società è la scoperta di un mondo. Perché qui non si parla semplicemente di macchine e di design. Qui si parla di un modo di fare impresa che è entrato nel mito, di un sogno utopico che però ha funzionato, almeno per un certo periodo. Di una fabbrica in cui non c’erano, come si direbbe oggi, risorse umane, ma cervelli al lavoro per un mondo migliore, o anche solo più bello, e -perché no?- più giusto.
Una fabbrica dove c’era “
un trust di cervelli letterari folto e scelto”, come afferma Filippo Sacchi. Non c’erano designer e creativi, ma intellettuali, discipline diverse al servizio di un sistema comune. I manifesti erano realizzati da artisti come
Giovanni Pintori. L’ufficio pubblicità, riorganizzato nel ‘28, era un luogo aperto, “
una struttura elastica, un polmone intermedio fra l’ordine dell’azienda e la libertà della ricerca”, come lo definisce Morteo. Gli artisti erano di casa e lì si gestivano non solo i manifesti e tutta la grafica, ma anche i progetti di allestimenti, i negozi, l’architettura.
Brand image, si chiama oggi. Il negozio-vetrina -l’odierno
flagship store– l’aveva progettato
Carlo Scarpa, e per disegnare i prodotti erano all’opera figure come
Sottsass,
De Lucchi,
Nizzoli.
All’Olivetti c’era, senza dubbio, grande attenzione per l’immagine, considerata in un’accezione assolutamente moderna e attuale. Ma non si trattava soltanto di questo: il progetto Olivetti travalicava l’esperienza aziendale, usciva dalle fabbriche per entrare nella società.
La mostra allestita alla Promotrice e curata da Enrico Morteo e Manolo De Giorgi -ventidue sale per altrettante soluzioni espositive- parte dal prodotto, esponendo una ricca collezione di macchine per scrivere, calcolatrici e calcolatori, per poi passare ad analizzare la visione sociale di Adriano Olivetti, le diverse sfaccettature del suo sogno, che trasformò l’Olivetti in un’azienda che non produceva semplicemente cose, ma idee. Adriano non solo aprì la fabbrica a poeti e artisti, ma si lanciò anche in un progetto sociale e politico, di cui è esempio il movimento Comunità. Anche qui sta l’unicità del mito Olivetti, l’ambizione a oltrepassare la gestione dell’azienda per fondare un modello nuovo di società.
Dopo Adriano, il nulla: l’azienda si era attrezzata ed era pronta per il passaggio dalla meccanica all’elettronica, una rivoluzione copernicana. Eppure, nel giro di due anni, il risveglio brusco dal “sogno” olivettiano: nel 1960 Adriano muore improvvisamente su un treno, l’anno seguente il responsabile tecnico della divisione elettronica si schianta in auto, Ettore Sottsass è malato in un ospedale americano. L’Olivetti, che pure propone computer da tavolo e pc all’avanguardia, non può nulla di fronte agli standard che diventano dominanti, quelli di IBM e Microsoft, i giganti americani contro il piccolo miracolo eporediese. La parabola olivettiana giunge al termine.
Il percorso della mostra no, perché non racconta solo la storia di una fabbrica. Racconta un percorso che si è sviluppato tra fotografia e cinema, arte e architettura. Dunque, spazio ai meravigliosi reportage fotografici di
Cartier Bresson,
Ugo Mulas e
Gianni Berengo Gardin, all’ampia produzione cine-documentaria, alla ricostruzione del negozio di Venezia.
Cuore della mostra, un riepilogo dell’esperienza Olivetti non in ordine cronologico, bensì alfabetico. Un abbecedario di 140 lemmi tra fotografie, frasi e oggetti che racconta meglio di molti altri mezzi l’essenza di quest’esperienza unica.
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La mostra è molto bella, senza nessuna sbavatura.
Allestimento semplice e chiaro. C'è speranza nella tradizione.