I lavori di
Guglielmo Castelli (Torino, 1987) appaiono “chiari e infelici”. Ma l’eco rovesciata del brano di Carmen Consoli torna utile solo per definire alcuni disegni e stati d’animo di questo giovane artista perché, mentre la cantante catanese incideva il suo album, Gugliemo Castelli stava probabilmente ancora imparando a leggere.
Parlare di giovani artisti significa spesso considerare la categoria secondo l’età anagrafica dei singoli, escludendo quindi le reali novità che ogni lavoro può proporre. Bisogna dunque autenticamente chiedersi se la generazione dei “bamboccioni” sia effettivamente svogliata e povera d’ideali. Sicuramente, e a più livelli – cioè anche sul versante letterario e musicale -, non vi sono molti libri, installazioni e tracce sonore che affrontano temi di attualità o politica, vale a dire che si pongono con prese di posizione ferree e punti di vista forti. Ma quest’assenza critica costituisce indubbiamente una delle possibili risposte a un momento di scarsa fiducia nella collettività, nella classe dirigente e in speranzose e inaspettate prospettive.
Più facile, dunque, per un giovanissimo, rifugiarsi nella propria autoreferenzialità narcisistica, perché nell’impossibilità di un cambiamento radicale le certezze di un artista emergente non possono altro che coincidere con il suo mondo casalingo, il microuniverso che ben conosce e di cui viene immediato parlare.
E nell’oceano sovraproduttivo dell’arte,
Cor Meum Vulneravit non è la versione elitaria e colta di un libro di Federico Moccia, ma il titolo della nuova personale del ventiduenne Castelli. Titolo di per sé poetico, benché rimandi all’iscrizione posta ai piedi della statua di un angelo in una nota piazza romana, la mostra esplora il tema dell’infanzia. Con tutti i segni, i miti e gli oggetti che – secondo un’idea di fascinazione per gli stessi – non intendono esprimere particolari significati per il fatto di rappresentati, ma che vogliono invece esplicitare semplicemente se stessi, in tutta la loro fisicità.
Questo avviene in
Ne bis in idem, la scultura in cui un colletto e un gonnellino appaiono come fossili recenti dell’età scolare dell’artista. Ma è anche quanto prende forma nei numerosissimi disegni di piccolo formato dove, preziose come tavolette dipinte, le tele diventano paesaggi della memoria, in cui ritornano ciclicamente maschere da coniglio, alberi, santi e personaggi delle fiabe. Che ribaltano, come nei migliori desideri infantili, le regole del gioco e della tradizione.
Mentre nel dittico
Amor Sacro, Amor Profano una lolita-cappuccetto rosso sembra fondersi in un abbraccio con il lupo, in
Porno un ragazzino si nasconde dietro una maschera colante secrezioni. Vergogna o seduzione, il movimento è quello di chi si offre anziché sottrarsi, di chi sceglie di esporsi senza difese, di chi – come i bambini – osa confessioni svelate. Con il rischio, quasi inevitabile, di essere ferito.