Robert Kusmirowski (Lodz, 1973; vive a Lublino) si è formato in un Paese ricco di cultura e storia, carico di forti tensioni politiche e sociali. Nodo tematico della sua ricerca è il tempo, il suo svolgersi tra passato, presente e futuro. I nessi tra queste diverse dimensioni s’intersecano, senza mai cadere nella stigmatizzazione omologata, così da determinare la costruzione di molteplici universi, nei quali appare impossibile distinguere tra verità e falsificazione.
Questa è la chiave di volta del lavoro: l’esperienza può confutare in ogni momento quel che appare contrassegnato come vero. Nel tempo si possono operare congetture, anticipazioni, oppure rileggere quel che già è avvenuto sotto una luce altra. Privilegiare le asimmetrie piuttosto che le simmetrie significa dare un senso alla possibilità.
In questo percorso risulta opportuno rammentare l’installazione
DATAmatic 880, realizzata a Berlino: u
n protocomputer attraverso il quale l’artista fa l’esperienza di un viaggio a ritroso nel tempo, fino a tornare a quando, non ancora famoso, all’età di 25 anni realizzò la sua prima mostra nelle sale dell’università, disponendovi disegni di oggetti, l’etichetta di una confezione di formaggio, un pacchetto di sigarette. Nella ricostruzione del passato, all’elemento scientifico si associa quello puramente “fittivo”, che mette alla prova il potere della mente, la tendenza ad andare oltre i limiti.
Per manipolare e padroneggiare il tempo e gli oggetti, Kusmirowski costruisce “macchine”. Nella mostra
UHER.C (nome di uno studioso della fisica del suono) lo spazio della galleria, immerso nel buio, sfocia in uno studio di registrazione, ricostruito con precisione assoluta: macchine che dialogano tra loro, simili a un “organismo vivo” fatto di tastiere, oscillatori, cavi, microfoni, suoni, luci, voci, svariati oggetti.
Lo spettatore è posto a confronto con il luogo di tutte le possibilità, ma anche di tutte le ambiguità, un labirinto di circuiti, di tecnologie sofisticate. Una perfezione che poggia sul paradosso, se è vero che nessuna apparecchiatura è utilizzabile nella funzione che ci si aspetterebbe. Se poi ci si accosta al vetro, attraverso il quale la sala è visibile, ecco al suo interno un’altra porta, chiusa e impenetrabile, e un’altra finestra, dalla quale si scorge una seconda
Wunderkammer.
Il buio che esalta suoni e voci fa capire allo spettatore che è entrato in una storia mai conclusa: le macchine contagiano, la stanza coinvolge così tanto che si prova il desiderio di “abitarla”.