Dotato di un animo sensibile e di quella rara capacità di captare i minimi, mutamenti della realtà che lo circonda, i dipinti di Giacomo Soffiantino appaiono da subito cupi, attraversati da un’intima ombra che incessante affiora come ultimo messaggio del gesto pittorico; una ombrosità che si osserva di là della gioia momentanea di una passeggiata tra le betulle, o della luce che come una carezza attraversa i colori bui che invadono la tela.
In una giostra di emozioni forti e diverse tra loro – che vanno dall’inquietudine alla tranquillità – si percorrono i quarantacinque anni di ricerca di un pittore che, non accettando la concezione ludica dell’arte, usa la pittura per rivolgere i suoi messaggi al mondo.
Gli interessa la pittura in rapporto ai fatti del mondo, dell’uomo; fatti che cambiano continuamente e sono pieni di contraddizioni, perché “la pittura non può restare estranea, compiacersi di un mestiere anche alto”. Attuale, oggi come non mai, il ciclo I musulmani: Olocausto (1960 – 1962).
“La pittura diventa simbolo di un mondo in cui profondità e estensione sono illimitate”.
La relazione della pittura con la realtà passa anche attraverso la natura, il bosco in particolare. Quest’ultimo è, infatti, uno dei suoi simboli; luogo di meditazione e d’osservazione, dove la vita nasce, si scopre. Le forme vengono esplorate, analizzate a fondo e quindi riproposte con uno stile nuovo, in bilico tra sogno e concretezza, con una tecnica rivolta ad eliminare il superfluo a favore della leggerezza atmosferica, dalla voglia incessante di semplificare fino a trovare spazi vuoti di colore.
Composizioni complicate al primo sguardo, ma nelle quali si coglie sempre la duplicità dell’esistenza fatta di tragedia e bellezza, di grigio e di rosa, di corpi che si sfiorano e di fiori al loro sbocciare e di canto messicano: Pobre flor que mal nasciste: y que tan triste fué tu su erte: el cortarte es cosa fuerte, el dejarte es cosa triste, el dejarte con la vida es dejarte con la muerte
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