Verso la metà degli anni ’60
Beat Kuert (Zurigo, 1946) realizza i primi
film sperimentali e diversi documentari. Video e fotografia diventano i mezzi
espressivi privilegiati della sua ricerca: le immagini, sempre fortemente
simboliche, tendono a catturare gli aspetti meno appariscenti della realtà,
artifici e illusioni. A questo scopo concorre in modo rilevante il colore,
intenso e aggressivo, con decisa prevalenza di contrasti netti, quali il rosso
e il nero.
Uno dei soggetti ricorrenti nel lavoro è la donna, vista
nella sua femminilità originaria, liberata da schemi, sensuale e ferina. In una
mostra di alcuni anni fa,
Donna carnivora, Kuert mostrava una “
donna sola, eternamente
affamata, il cui abito preferito è la pelle”, a sottolineare il bisogno di superare feticci e
apparenza per far ritorno a una situazione originaria.
Anche
Vertigo ruota intorno a questa tematica; il titolo del progetto
ha reminiscenze hitchcockiane, nell’impianto delle immagini – tutte realizzate
negli ultimi due anni – che lasciano interagire realtà e dimensione onirica con
un forte impatto percettivo. Si tratta di still da video: momenti topici
vengono focalizzati e fissati in un gioco di sovrapposizioni e di ripetizioni
ossessive che comunica allo spettatore un senso di inafferrabilità.
Il continuo sconfinamento in una regione dello spirito
dominata da pulsioni primordiali si traduce nell’incalzare delle sequenze
fotografiche, che imprime all’insieme un ritmo vorticoso e coinvolge lo sguardo
in rimbalzi allusivi, all’interno di un continuo ribaltamento dei significati.
Il linguaggio coniuga diversi codici espressivi, da segni astratti a frammenti
di scrittura. Bocche rosse, chiome fluenti, corpi flessuosi paiono sospesi
nello spazio, in una dimensione temporale cristallizzata.
In
Martirio è una bocca sensuale, rosso carminio, a catalizzare lo
sguardo; in
Sure of her innocence, invece, sono le parole che scorrono sul corpo a generare
tensione;
Volver è costruito su una rapida successione iconica, nella quale le figure risultano
sempre indefinibili; in
Carnaria le fasce verticali generano ossessione.
La mostra è completata da un video, nel quale si
susseguono i preparativi della performance che ha avuto luogo nella galleria la
sera dell’inaugurazione e le cui tracce sono ancora visibili nella teca di
vetro poggiata su terriccio, al centro della sala. Donne che si cospargono di
terra, pelle autentica, in un gesto che sottolinea la volontà di un ritorno
alla natura.