La visita nella nuova galleria di Franco Noero inizia nell’ufficio al di là della strada. L’interesse degli “addetti ai lavori” è scontato, quello dei cittadini, invece, quasi intenerisce: la Fetta di Polenta ha ripreso vita, è accessibile, le fantasie del borgo alimentate prima dalle persiane chiuse svaniscono ora nel bianco luminoso delle pareti, nel rigore del nuovo allestimento, nel rispetto e nella cura dei dettagli. Si tratta di un difficile equilibrio: si ha a che fare con la storia, con la tutela di un bene prezioso, ma al contempo non è un museo, anche se è uno spazio in cui l’architettura dialoga con le opere di artisti contemporanei.
Sfogliando un antico saggio su Antonelli scopriamo un dettaglio curioso. Fra i progetti per la città di Torino non realizzati dal novarese architetto e ingegnere si rileva che gli fu richiesto, intorno al 1860, di disegnare una galleria d’arte moderna da elevarsi a ridosso del palazzo del Demanio di via Bogino. Insomma, era destino che l’arte fosse ancora una volta contenitore e contenuto e s’incontrasse con il contemporaneo. E, in questo caso, il risultato è molto più che interessante. Perché la Fetta di Polenta è un edificio unico, un ritaglio di pianta triangolare che s’innalza e sfida il vuoto, e Antonelli nel 1881 chiede di sopraelevare di due piani più un frontone i tre fuori terra esistenti. Poi, abusivamente, aggiunge alla casa acquistata dalla consorte Francesca Scaccabarozzi un altro piano e modifica completamente i prospetti.
Che Antonelli fosse un uomo sicuro di sé è noto: fu “invitato” ad abbandonare o a modificare il progetto della Mole in modo piuttosto deciso, più volte. La scienza delle costruzioni non aveva simili modelli matematici a cui riferirsi, ma Antonelli seppe osare, utilizzando razionalmente le conoscenze a sua disposizione. E
Simon Starling (Epsom, 1967; vive a Copenhagen) gli rende merito aumentando il carico e appoggiando sul pavimento in originaria pietra di luserna tre grandi blocchi di marmo, con un movimento ascensionale a spirale.
In ognuno dei sette piani, Starling srotola un pezzo di una storia composta da molte storie: il numero sette rimanda all’infinito della creatività umana, le interpolazioni e le biforcazioni consistono proprio in un continuo gioco di rimandi e riferimenti culturali che rievocano i protagonisti dell’architettura, del design, dell’arte e del cinema legati alla storia vera di un Maharajah che ha saputo catalizzare l’interesse e l’impegno di artisti quali
Costantin Brancusi,
Fritz Lang,
Thea Von Harbou e
Joe May.
In mostra si respira la magia dell’India che ha ispirato la nascita di tre film, ma anche un intelligente sguardo allo scatto del secolo ormai trascorso. Starling rivive il sogno della residenza di Manik Bagh affidata all’architetto
Muthesius. Ne esalta la struttura razionalista, che immediatamente evoca
Le Corbusier, ironizza sul narcisismo del progettista, pronto a modificare il reale pur di rispettare il gusto europeo. Esalta la finzione misurando lo spazio e ricostruendo un piano della galleria, che viene a sostituirsi alla realtà nelle foto. Ma in queste permane solenne il soffio del mutamento inevitabile, ora poeticamente citato con una porta chiusa, ora tristemente documentato con le attuali foto della residenza, in stato di semiabbandono.