Palazzo Ferrero è stato eretto tra il XV e il XVI secolo. Nella sua forma attuale sono aggregate quattro strutture indipendenti, seppure adiacenti per almeno uno dei lati. La sua conformazione e la sua struttura sono legate alle vicende della famiglia Ferrero, che lo fece diventare un luogo strategico, una sede che dal 1160 ha espresso il potere economico di una dimora nobiliare di tipo urbano. Palazzo Ferrero ha dovuto conferire a chi l’ha vissuto, dall’interno come borgo e dall’esterno come luogo di ritrovo, un senso di sicurezza, di agiatezza e d’importanza sociale. Oggi, gli spazi dedicati alle esposizioni sono una sede caratterizzata da un prestigio composto, una sede luminosa e sontuosa, poco propensa alle insidie del mistero.
Teatro perfetto per
Teatri possibili. Percorsi visivi, simmetrie e affinità dall’epoca barocca alla videoarte. La collettiva, allestita all’interno di due ali del palazzo, si sviluppa attorno ad alcune tematiche teoriche poco riconoscibili, concetti che si mischiano tra loro secondo una strana commistione di principi estetici e percorsi speculativi.
Il saggio di Andrea Busto, che accompagna il variegato quantitativo delle opere esposte – fra dipinti, fotografie, video, disegni e sculture -, restituisce alle arti il compito di
contagiatori culturali. Detonatori mediali ed espressivi, portavoci di alcune delle urgenze sociali contemporanee più problematiche: la vecchiaia, il lavoro, l’emigrazione, la discriminazione razziale, l’istruzione, l’amicizia, il divertimento, la sessualità, la politica, l’ecologia e la giovinezza.
Questo doppio
utilizzo dell’arte come piattaforma sensibile e atemporale che, oggi come sempre, interpreta le sovrastrutture umane, sarebbe stato un punto importante della rassegna. Lo sarebbe stato se le opere in mostra – che spaziano da lavori di
Santiago Sierra a tele di
René Magritte e a imprese di
Allora & Calzadilla, passando attraverso le foto evanescenti di
Elina Brotherus – non risultassero un’amalgama eccessivamente poco coesa.
Per fare un esempio: è piacevole riscoprire in mostra lavori video noti, seppur sempre meno visibili, quali
Stromboli di
Marina Abramovic, prodotto nel 2002, oppure
Remembrance di
Bill Viola, del 2001. Ma come farli convivere senza produrre interferenza (sempre rispettando la stessa categoria mediale) con un girato come
KR WP del grande
Zmijwski? E ancora, come riuscire a sistematizzare supporti video cannibalizzanti con le stilizzazioni floreali di
Balla, le atmosfere di
Annika Larsson o le vergini sconsolate di
Gaetano Gandolfi?
Dunque, viene da chiedersi: cosa manca alla ricercata freschezza di
Teatri Possibili? In mostra sono ben presenti rappresentazioni simboliche di alcune problematiche sociali e periodi storici sensibili. Ma forse sarebbe utile una maggiore corrispondenza letteraria, fuori dalla ricerca artistica, che resta forse troppo relegata alla nostalgia dei capolavori del passato.