A ragione si può affermare che ciascuna scultura murata alle pareti è un diagramma. Uno schema risolutore di un senso emancipato, un senso estratto da un significato deciso a priori. Un punto di applicazione del colore e un luogo di agitazione di tutte le forze che la pennellata di smalto brillante mette in mostra. Quel che più è sottolineato, secondo quest’uso delle decorazioni e degli accostamenti cromatici, è il rapporto di vicinanza e la modularità statica degli elementi distinguibili all’interno dell’andamento compositivo e della narrazione estetica maggiormente privilegiati. Tutti i tasselli, come una rete, trovano il loro posto sempre in virtù di un limite esterno, un orlo significante e predefinito che genera internamente all’opera proporzioni ed etimologie “velate”. Sagome di ritagli sottratti all’aria e restituiti allo spessore della materia. Effetti ottenuti dalla sovrapposizione di più livelli di lamina metallica traforata.
Ogni contorno formale è quello di una figura, che trova una propria affermazione plastica e un ponderato statuto di riproducibilità all’interno delle forme-recinto che
David Gerstein (Gerusalemme, 1944) definisce con ironia e semplicità, solamente chiamandole per nome. I titoli di ciascuna opera, in tutto una ventina, sono altrettante strizzate d’occhio alla realtà, sberleffi riverenti che investono del medesimo humour anche i disegni a pastello appesi nella stanza centrale della galleria.
L’artista israeliano fa delle proprie sculture un breve regno che ha sempre un altrove. In continuo parallelismo, ogni visione fissata nell’alluminio rimanda costantemente a un altro luogo, a un altro momento, oppure, più scanzonato e liberatorio, a un altro senso. A un senso differente della raffigurazione simbolica del reale. Così, in
Beauty Hunter farfalle coloratissime, assemblate, le une con le ali saldate alle altre, riprendono la forma di una scarpa décolleté. Oppure, pennellate lasciano distinguere forme nascoste, come in
Sound of colours. O, ancora, di estrema grazia e attinenza decorativa, la borsetta scontornata e intagliata nel metallo di
X-rays. All’interno di questo layout, somigliante a un accessorio stilizzato, compaiono tutti gli oggetti che una signorina dovrebbe sempre portare con sé.
Una rivisitazione “aeroportuale” e voyeurista che la bidimensionalità del laminato permette di tradurre in una sorta di scarto tra pieni e vuoti d’ombra. Segmenti necessari alla rappresentazione piatta di oggetti che vengono così salvati dalla rotondità dirompente del quotidiano. E dalla folla che li disperderebbe. Come in
Megalopolis. Dove le persone come le cose vengono incise dal colore, quasi fossero leggeri, anche se vistosissimi origami metallici.
In un indefinito rimbalzo di linee, forme, geometrie infantili e riproduzioni, si assembla il mondo fine e sovraffollato di David Gerstein. In questo posto, al suo interno, il pittore dipinge con occhi che hanno visto e toccato la pienezza della rappresentazione, scansando, forse per appiattimento, la verità neutra dell’indifferenza formale.