Qualcuno ha detto che le sculture devono farsi perdonare lo spazio che occupano. Occupare uno spazio non è questione da poco. Soprattutto dopo decenni di astrazione o di estrema razionalizzazione, di imperante rigore minimalista.
Marena Rooms ospita una mostra curata da Luca Beatrice, una mostra non semplice da incasellare, ma la dichiarazione d’intenti è chiara nel testo critico: ha un senso definire contemporaneo questo genere di scultura e l’utilizzo di antiche tecniche artigianali? Alle pareti troviamo una serie di mosaici, al centro delle sale alcuni busti in bronzo dipinto.
Leonardo Pivi (Riccione, 1965) sceglie come muse bambole ammiccanti dei nostri tempi e ne ricostruisce fattezze e abiti con tessere di pasta vitrea e pietre preziose che ruotano e si alternano fino a divenire, dopo un mese di paziente lavoro, luminosi pixel che ricompongono un’immagine.
Si tratta di una riduzione della materia all’unità, un tassello fra mille, per ricomporre un
soggetto-oggetto contemporaneo, creando un forte contrasto tra la forma e il modus operandi.
Il mosaico è la tecnica che associamo alla solennità della storia, agli Imperatori d’Oriente, alla magnificenza di San Vitale a Ravenna e di Santa Sofia a Costantinopoli. Forse anche per tal ragione si riscontra una sorta di tristezza in queste bambole assunte a eterno simbolo del fatuo: non sono altro che il mezzo attraverso il quale accostarsi alla modernità.
Paolo Schmidlin (Milano, 1964) è noto per le sue sculture iperrealiste in terracotta o bronzo, la
Miss Kitty che a Milano venne bendata perché troppo somigliante a Papa Benedetto XVI prima ancora che si decidesse di censurare l’intera mostra
Arte e omosessualità. Le sue opere sono sprezzanti, spesso ironiche, ancor più spesso colgono l’amarezza della condizione umana. A interessare l’artista sono soprattutto i visi non più giovani, profondamente segnati dal tempo, impietosamente rugosi, spesso colti in momenti di assenza, di amara riflessione: con lo sguardo fisso nel vuoto scavano nell’abisso di una memoria individuale e, probabilmente, a ritroso nel tempo non trovano pensieri consolatori.
La scultura che rappresenta Bette Davis nel ruolo di
Baby Jane nel capolavoro di
Aldrich incarna il distacco della follia, la scollatura dalla realtà, il presente tragicamente incapace di riconoscersi e quindi di accettarsi. Baby Jane non tornerà, il passato è già stato, la smorfia di disgusto è la medesima che ritroviamo sul viso dell’anziana nonna dell’artista, , nonché la medesima che offre al pubblico l’
Ing. Prinetti, orgogliosa e sdegnata nel mostrarsi: c’è un momento di sospensione in queste sculture, una consapevolezza tragica del vissuto, una rassegnazione priva di illusioni.
Un trionfo del dettaglio, quindi, ancora più incisivo quando poco edificante. Una sorta di celebrazione di coloro che comunque si ritengono sopravvissuti e dell’eterno divenire si beffano.