Un po’ ironica, a tratti nostalgica e con un tocco di fotoromanzo, la personale di
Elisa Gallenca (Torino, 1970) racconta un favoloso viaggio negli anni ’40, dai ritmi e dai contenuti caleidoscopici. La donna perfetta, che sia la Rita Hayworth di
Gilda o una pin-up, è un pretesto da cui prende le mosse un’indagine sul femminile che crea un ponte tra l’opaco colorismo di quel decennio -attanagliato dalla guerra eppur proteso verso la fioritura che seguirà negli anni successivi- e un presente che s’interroga, dubbioso, sulla mancanza di spunti davvero innovativi per la creatività. In un presente interdipendente dal passato, la donna dalle
due gambe e un sorriso, la cui sensualità remissiva e al tempo stesso dirompente ha invaso -e tutt’ora permane- l’immaginario erotico e comportamentale collettivo, guarda al suo contrario con rammarico e nostalgia. Come può competere con lei la donna dai due sorrisi e una gamba? Cos’è rimasto di quel fulgore? Il passato è stato utile, e in che misura? Funge ancora da esempio per il presente?
In questo rimescolarsi di spunti, che oscillano tra il forte dato figurativo-decorativo (l’idea della mostra parte da un catalogo di tappezzerie anni ’40, i cui ritagli inseriti sulle tele hanno la funzione di renderle cornici dei lavori in mostra) e la ricerca che dal formale si proietta verso indagini più profonde, permane un sentore dell’ormai abusato spirito
vintage.
Stemperato però da un’autentica fascinazione per un’epoca che ancora dissimulava quelle premesse globalizzanti nelle quali anche l’arte sarebbe presto incappata. Agli oli che ritraggono bellezze al sole dalle carnagioni eteree, modelli precursori dell’iconografia alla
Gil Elvgren, e scatti cinematografici della commedia romantica, s’intercala la successione di video proiettati sul minischermo di una radio d’epoca. Che, per l’occasione, cessa d’essere simbolo della domesticità pre-televisiva e, in qualche modo, crea l’ennesimo punto di contatto con noi, consumatori d’immagini in movimento. E, per volere di Gallenca, spettatori non più di riprese ultra-tecnologiche, ma di un delizioso gioco d’animazione costruito utilizzando figure ritagliate da giornali e modellini d’arredamento del periodo.
Il risultato è una mostra ben articolata, intima e al tempo stesso vivace. Uno specchio di polemica o rievocazione, in cui la ricerca è efficace e pervasa di leggerezza. E in cui è impossibile non scoprirci un po’ bambini e un po’ nostalgici pure noi, di fronte al mini-frigo
Superlady ricolmo di oggetti in miniatura. Quello che sognavamo per la casa di Barbie.