Senza smentire la sua indole da indagatore della realtà urbana,
Gabriele Basilico (Milano, 1944) affascina anche in occasione di questa minuscola personale. Ma non inchioda le coscienze, come avviene nella serie di fotografie a colori selezionate dal lavoro
Beirut (1991) e presentate alla 52. Biennale di Venezia. Dove la location dell’Arsenale, per la sua drammatica maestosità, ha indubbiamente il dono di amplificare il tutto, caricando gli scatti di ulteriori suggestioni e significati. Che vivrebbero benissimo anche altrove, tanto è il sentimento di comprensione e partecipazione in esse contenuto.
A mancare, invece, in questa nuova selezione torinese di opere in bianco e nero di grande formato -in buona parte scattate nel corso di recenti campagne fotografiche su Montecarlo, San Francisco, Parigi, Monaco, Barcellona, Lisbona e Bari- è proprio la dimensione umana. La sua innata capacità di addentrarsi nel tessuto di un paesaggio cittadino. E non fa differenza che si tratti di una metropoli lussuosa o di un singolo edificio martoriato dalla guerra, perché ciò che conta è il punto di vista, la scelta di guardare il mondo da una posizione privilegiata oppure in linea retta rispetto al territorio circostante. “
Sono sempre stato un orizzontalista convinto -afferma Basilico nel testo di presentazione-
. Penso che l’orizzontalità sia anche, simbolicamente, un invito a una percezione più statica, alla ricerca di un possibile equilibrio dello spazio che mi sta di fronte, che cerco di descrivere, di interpretare”.
Realizzando solitamente un’indagine a misura d’uomo, dove l’incedere lento della macchina fotografica s’identifica con il passo e il ritmo dell’osservatore, proiettandosi di conseguenza sulla città e le sue architetture in un ideale abbraccio ricco di empatia. Ma questa volta il taglio verticale della foto (che allude “
non tanto alla verticalità del formato fotografico come rimando obbligato a una scelta compositiva” continua Basilico per cercare di spiegare la svolta “verticalista” delle immagini presenti in mostra “
ma piuttosto a un atteggiamento dinamico dello sguardo”) impone un nuovo ordine di idee. Un’accelerazione improvvisa, esaltata dalla visione a volo d’uccello che sembra premere il pedale dell’estetica, svincolata da qualsiasi intento sociologico, e spostare l’attenzione sulla pura percezione della forma.