Suggestioni che nascono dall’incontro di diversi mondi culturali: quello polacco, dove è nata, e quello occidentale, dove vive; una profonda sensibilità nei confronti del mondo animale e della natura, vista come recupero di una dimensione autentica. Sono queste le componenti fondamentali del lavoro di
Gosia Turzeniecka (Opoczno, 1974; vive a Torino). Dietro alla sua ricerca si intuiscono le emozioni che nascono dall’abbandono momentaneo della realtà visibile, per rifugiarsi nel mondo della contemplazione, dove si può cogliere la perfezione dell’essenza. A questo riguardo è opportuno richiamare la pienezza del caos, qual è definita da Schelling, un mondo di pulsioni irrazionali, l’ebbrezza della vita, dissolta in una sottile magia.
I lavori di Turzeniecka, realizzati su carta o su stoffa, richiamano questo universo, visibile solo con lo sguardo dell’interiorità. La carta è preferibilmente a grana fine, quasi una pelle di seta, sulla quale il segno si deposita con dolcezza, facendosi epifania dell’infinito; la stoffa è sottile, leggera. Il gesto della mano traspone il pensiero: concetto e gesto si saldano in un’elaborazione caratterizzata da sobrietà compositiva e da una poesia intimista. Le carte disposte sulle pareti della galleria sembrano appunti di un viaggio interiore, alla ricerca di una condizione di autenticità, nella quale gli animali -mucche, piccioni, oche-, protagonisti di tutti i lavori presentati, sono l’alter ego dell’uomo. Fanno parte di un archivio della memoria, nel quale vive il caos primigenio, che assume una valenza magica e cultuale.
Il procedimento attraverso il quale Turzeniecka realizza le opere è del tutto particolare. Interviene con un minuscolo scalpello su patate –le
ziemniaki che danno il titolo alla mostra- tagliate a metà, scava nel profondo definendo uno “stampino”, sul quale viene steso con un pennello dell’inchiostro di china. Trasferito sulla carta o sulla stoffa, vi lascia un’impronta sempre differente, con variazioni impercettibili. Nasce un universo figurale che riempie la campitura, come nel caso di
Settecentocinquantacinque, o è disposto in modo rarefatto, come in
Sessantanove (il numero che funge da titolo dei lavori corrisponde a quello degli animali presenti nell’opera). Lo spettatore che si avvicini a
Milletrecento s’accorgerà che dall’alto procede una miriade di segni, via via ingranditi in una proliferazione di forme: becchi d’oca, frutto di una suggestione visiva avuta dall’artista durante un viaggio in Polonia, osservando un prato sul quale si muovevano milletrecento oche, con un effetto cromatico che la carta riesce a riconsegnare alla percezione.