Intorno alla metà degli anni ’10, con il sostanziale apporto di Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) e di un Fortunato Depero (Fondo, 1892 – Rovereto, 1960) poco più che ventenne, il Futurismo si allontana progressivamente dal fronte simbolista caro a Umberto Boccioni e dai dettami compositivi imposti dal divisionismo. Assai rivoluzionario, il nuovo ideale predominante consiste nella realizzazione di un mondo popolato da entità meccaniche e costruito con materiali industriali ed inediti: una dimensione, insomma, che possa essere generata dall’incontro tra arte e scienza.
L’attuale mostra di Palazzo Cavour si apre proprio con due sale riconducenti a questo giro di boa, ovvero alle tematiche trattate nel 1915 da Balla e Depero ne Ricostruzione futurista dell’universo, in cui si teorizza per la prima volta sulla linea astratto-meccanica.
Nel celebre documento, gli obbiettivi dei suoi autori appaiono ben chiari: “Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”. In pittura, dunque, ecco che le sagome si fanno via via più definite e cominciano a delinearsi paesaggi artificiali fatti di coni, spirali, parallelepipedi e piramidi.
Il manifesto, ancora, si propone di estendere i principi dell’ estetica futurista ad ogni aspetto della vita umana, dalla poesia all’architettura, influendo così anche sulle cosiddette arti minori: arredamento, scenografia, grafica, tipografia. Se poco più tardi, difatti, accade che Balla trasformi fiori in rigorosi assemblaggi di geometrie in legno (Fiore futurista verde, lilla, 1920 circa), la celebre Casa d’Arte di Depero a Rovereto sforna estrosi panciotti e colorati arazzi in panno (Mucca + cittadino, 1926).
Composto in tutto da 7 sezioni, l’allestimento prosegue accennando all’attività di alcuni architetti quali Mario Chiattone (Bergamo, 1891 – Lugano, 1957) ed Antonio Sant’Elia (Como, 1888 – Monte Zebio sul Carso, 1916), rievoca i tempi del Manifesto dell’Arte Meccanica (1922) e conclude con un riferimento piuttosto cospicuo all’Aeropittura (con Benedetta, l’unica donna, ed ancora Crali, di Bosso,
Dopo la I Guerra Mondiale, il contributo dei futuristi torinesi si rivela determinante per l’evolversi dell’intero movimento. A questo proposito, due sale raccolgono le tele di Fillia, Diulgheroff, Farfa ed Oriani, le sculture in bronzo di Mino Rosso (Castagnole Monferrato, 1904 – Torino, 1963), alcuni lavori di Spazzapan.
Mediante un nutrito omaggio ad Enrico Prampolini (Modena, 1894 – Roma, 1956) si riflette sull’idealismo cosmico prima – per mezzo di opere come Forme forze nello spazio (1932) e Apparizioni biologiche (1935), in cui si palesano tracce biomorfe dai toni surrealisti –, e sul polimaterismo poi, grazie alla presenza di pezzi quali Ritratto di Marinetti (1924) ed altri appartenenti alla nota serie Intervista con la materia (1930). Lo stesso padre fondatore della corrente Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) è ricordato con un lavoro fortemente significativo e di grande impatto sensoriale (Tavola tattile Paris-Soudan, 1921). Chiude la mostra l’ampia veduta a volo d’uccello Incendio Città (1925) di Gerardo Dottori (Perugia, 1884 – 1977): un’opera visionaria, incandescente, in cui gli edifici si mutano in prismi di luce e le fiamme in cunei svettanti.
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