Dicono che, a occhio nudo e da oltre duecento chilometri di altitudine, da quella fetta di atmosfera popolata da 900 satelliti e migliaia di detriti, sulla Terra si riescano a distinguere tre opere dell’uomo. La prima è la Grande Muraglia. La seconda è Fresh Kills, la più grande discarica a cielo aperto del mondo, a Staten Island. La terza è il Garbage Patch, una macchia grande quattro volte la superficie dell’Italia, che galleggia nel Pacifico settentrionale, dove il gioco delle correnti “raduna” tutta la plastica raccolta dal mare.
Se una volta creavamo capolavori d’ingegneria e architettura, ora per lo più produciamo spazzatura, reale e metaforica.
Marcel Duchamp, nel 1912, insegnò però che anche dal pattume può nascere un’opera d’arte.
Pierre Bismuth (Parigi, 1963; vive a Londra e Bruxelles), nella sua terza personale da Sonia Rosso, riprende l’insegnamento e, attraverso il recupero, la reinvenzione e il riciclo di materiali diversi, crea le opere di
Neon, Mirror and Gold.
I neon sono quelli della serie di lavori di
Reedemed, presentati qui in anteprima, dove frammenti di tubi rotti sono colorati e riassemblati per creare nuove luci multicolori. La frammentazione ritrova unità e funzionalità.
Gli specchi introducono invece una delle serie più famose dell’artista parigino:
Something more, Something less. L’idea della sottrazione che emerge dal titolo si materializza in specchi e vetri di riciclo trapassati da sagome circolari. I cerchi ricavati dal materiale sono poi esposti a terra. Il dubbio è: quale dei pezzi è l’avanzo dell’altro? Le parti in positivo o quelle in negativo? Poco importa. Uno specchio con cinque buchi non è uno specchio, ma nemmeno cinque piccole circonferenze specchianti lo sono. Persa la funzionalità, anche la parola sembra perdere il suo significato, come in quel racconto di Paul Auster in cui un vecchio pazzo dà nomi nuovi agli oggetti rotti che trova per strada.
Infine il
gold, l’oro. Sono lettere e disegni a 24 carati quelle con cui l’artista recupera, nella serie
Note d’oro, idee e schizzi da vecchi appunti e diari. Nodi nautici, persone in bicicletta, numeri misteriosi, scritte ironiche come “
Non è tutto oro quel che luccica” e “
One man’s mess, is another man’s masterpiece”. Che è la chiave di lettura della mostra: la confusione (ma anche l’accozzaglia, il disordine) di un uomo è il capolavoro di un altro. Viene da immaginare Duchamp che, magari vicino a una pattumiera, raccatta un vecchio scolapasta tra gli sguardi sbigottiti dei passanti e, a fianco, Bismouth che raccoglie tubi al neon rotti dal cestino stampato sull’invito alla mostra.
In breve, la mostra celebra la spazzatura (e il suo potere creativo). Quella a cui Calvino dedicò una della sue
Città Invisibili e che a DeLillo ispirò un intero sottomondo,
Underworld. Quella che è arrivata fin negli scenari fantascientifici di numerosi film e perfino in teatro, con
Finale di partita di Beckett. Quella che ha fatto da musa a moltissimi artisti. E l’unica cosa che non smetteremo mai di produrre.