Entrare in una ragnatela fitta di rimandi alle avanguardie storiche, di giochi di ruolo da investigazione poliziesca, di citazioni letterarie sospese tra Calvino e Borges; nonostante questo (o, forse, proprio per questo) sentirsi a casa. Non solo in senso metaforico, perché la location è un appartamento situato al quarto piano di un palazzo di Torino con “svista” su piazza Vittorio, normalmente adibito a studio e da qualche tempo anche a spazio espositivo, ma limitato a una sola stanza.
In occasione di questa doppia personale di Baruzzi e Ratti, riacquista tutto il suo sapore domestico, soprattutto nell’installazione ambientale di
Riccardo Baruzzi (Lugo, Ravenna, 1976). Dove una quadreria di piccoli dipinti, in parte suoi oppure recuperati nei mercatini e lasciati integri, in parte rivisitati oppure falsificati con la sua stessa firma, alcuni appesi, altri appoggiati ordinatamente su mensole a parete, concorre a visualizzare nella mente di un ignaro visitatore l’idea rassicurante di una certa aria familiare.
Come poteva essere quella di un salotto piccolo-borghese ottocentesco, stracarico di “
buone cose di pessimo gusto”, così descritto dal crepuscolare Guido Gozzano. Ma qui il vero referente letterario di Baruzzi è Jorge Luis Borges, del quale sembra voler riproporre, nel processo di costruzione delle proprie opere, la sua tecnica combinatoria di un complicato sistema di rapporti a modulo.
Non a caso è
Finzioni il titolo della mostra, tratto dall’omonima raccolta di racconti del poeta e scrittore argentino pubblicata nel 1944, e sempre non a caso l’artista romagnolo definisce il proprio lavoro come “
parte di un progetto più ampio, inerente a una grande ‘installazione modulare’ nella quale creare una serie di opere comunicanti tra loro, in una sorta di rete che collega un lavoro a un altro”. In un dialogare continuo di pittura, scultura,
object trouvé e musica.
Anche per
Daniele Ratti (Milano, 1974) si tratta di una temporanea tappa all’interno di un percorso artistico più esteso, iniziato nel 2005 e tuttora in divenire. L’installazione fotografica presentata è costituita da sei lightbox e appartiene a un ciclo di quarantacinque ritratti di marionette, costruite dal torinese Guido Ceronetti, poeta, saggista, scrittore, giornalista, artista di strada, marionettista e molto altro, appositamente per il Teatro dei Sensibili.
Una sua creatura, diretta emanazione di se stesso, fondata insieme alla moglie Erica Tedeschi nel lontano 1970, per allestire spettacoli itineranti con queste maschere manovrate da fili e catturata, nella sua essenza più profonda, dalle sequenze fotografiche di Ratti. Che, stampandole su lastre radiografiche poi retroilluminate, ha inteso intraprendere una riflessione sulla natura del suo linguaggio artistico e sui problemi connessi al suo manifestarsi, in un alternarsi di illusione narrativa e consapevolezza critica. Mettendone quindi a nudo la tragica umanità.