Malgrado le dimensioni notevoli delle trentadue stampe da negativi originali, non è facile rendersi conto dell’enormità dei set fotografici creati da questo geniale artista della ripresa panoramica. E’ leggendo le esaurienti didascalie affiancate ad ogni opera che si comincia ad avere un’idea più precisa di ciò che si sta osservando: 21.765 militari ritratti per comporre l’insegna della base aeronautica di Lackland. Migliaia di magliette bianche e nere che avvicinate sapientemente rendono alla perfezione immagini grafiche e lettere dell’alfabeto. Continuando a leggere le didascalie, lo stupore aumenta. Gli studi per correggere la distorsione ottica delle fotocamere esistenti a quei tempi, vanno avanti per mesi e comprendono tutta una serie di schizzi accuratissimi.. Nel caso dell’immagine della base di Lackland, del 1947, il 90% delle persone era situato nella parte inferiore della foto e solo il restante 10% in quella superiore, passando dai 40 centimetri di distanza che separavano le prime due file, ai 5 metri esistenti tra le ultime due.
Eugene Omar Goldbeck nasce a San Antonio, Texas, nel 1891 e poco più che adolescente, si mette a fotografare i compagni e vende loro le foto. Dopo aver iniziato a fare il fotografo a tempo pieno, comincia la sua collaborazione con le forze armate. E’ in questo ambito che sviluppa il suo discorso fotografico.
La tecnica usata, si avvaleva della Folmer Graflex Circkut Camera, una macchina di grande formato che, grazie ad un sistema dentato, arrivava a ruotare fino a 360°, durante un’unica esposizione, mentre la pellicola, posta su un piano arcuato, ruotava in maniera sincronizzata. Per le riprese dall’alto, invece, aveva studiato una piastra basculante che gli permetteva di inclinare la fotocamera, lasciando in piano l’ingranaggio ruotante.
Il suo modo d’operare è estremamente innovativo e non tanto per la fotografia panoramica o le Living Insignia, di cui non è l’inventore quanto per le trovate tecniche e per la grande struttura comunicativa che egli mette in atto.
A guardare bene, il suo non è un discorso unicamente artistico e professionale. Goldbeck usa la fotografia per trasmettere un ideale, o forse un’idea: quella di un’America potente anche se in crescita e in via di sviluppo, la cui forza è basata sull’ordine, l’efficienza e la precisione.
Le basi militari, i battesimi con le persone immerse nell’acqua e centinaia di spettatori, le squadre di baseball con tanto di mitici campioni, i concorsi di bellezza, i velivoli della Panamerican ben allineati, le foto di uomini d’affari e del Ku Klux Klan, sono lo specchio del suo ideale, come lo sono le sue parole: “Non sei tu che ti lasci fotografare: sono io a fotografarti e lo farò all’interno di un ordine, dicendo quello che intendo dire. Ti riconoscerai sempre, ma nel modo e la maniera in cui io voglio che tu lo faccia: uno e una, tra la gente; in queste foto non sarai mai un individuo – Nella storia con la Nazione e null’altro”.
In questo contesto non mi è stato difficile notare come, tra le migliaia di persone fotografate nelle varie opere, l’unico nero che appare – l’immagine è quella del concorso di Cow boy di Fred Beebe, San Antonio, Texas, 1924 – viene ritratto in una posa clownesca e umiliante di uomo sandwich che, in piedi, regge un falso cavallo, sul quale dovrebbe risultare a cavalcioni. Un evidente segno dei tempi. Aldilà dell’ideologia e della filosofia esistenziale dell’uomo Goldbeck, egli rimane in ogni caso un artista geniale, e la bellissima mostra allestita alla Fondazione Italiana per la Fotografia è di grande interesse storico ed artistico, e vale sicuramente la pena di essere visitata.
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