Il curatore, Andrea Busto, ha ambiziosamente voluto un “corpus di opere in movimento”, promettendo di variare l’installazione della mostra durante il lungo soggiorno della collezione nelle antiche sale del Filatoio.
I motivi per elogiare questo evento derivano dalla qualità della collezione, ma anche dall’intelligenza con cui si è scelto d’esporla. Le nove sezioni valorizzano il “carattere” del corpus (appassionato ma omogeneo) senza privare lo spettatore più sprovveduto di griglie storico-didattiche con cui leggere l’insieme. Questa fluidità d’intenti è riscontrabile ugualmente nella scelta di porre fianco a fianco artisti noti, che hanno fatto la storia dell’arte del secolo scorso, e nomi “giovani”, su cui scommettere con lungimiranza.
Da Burri a Fontana, da Tobey a Francis, la collezione La Gaia brulica di raffinati capolavori che trasformano la gestualità in segni, elementi grafici che evocano la scrittura come origine del fare. La splendida tela intitolata Kerlaz (1964) di Georges Mathieu, artista informale francese, rimanda alla capacità di raccontare la materia attraverso colori astratti “che precedono il significato”. Mentre il Concetto spaziale (1956) di Lucio Fontana immerge quel gesto nell’idea di spazio fisico e mentale.
La sezione Quadreria Astratta permette di percepire il carattere effimero dell’idea d’avanguardia, mostrandoci opere un tempo terribilmente moderne e oggi così “classiche”. È anche un modo per chiamare in causa gli studioli e le pinacoteche, raccolte intime del passato in cui la pittura dialogava con gli oggetti più disparati; le “meraviglie” esotiche delle wunderkammer poi trasformate in cabinet d’amateur.
Ma questa volontà didattica non smorza affatto il carattere connotativo della collezione: una sorta di “valore etico” che si esprime nella pulsione dell’artista verso la riflessione sul suo essere nella società. In realtà, è la prima sezione della mostra, Corpi –la più forte, la più incisiva–, a suggerire come il corpo della donna sia spesso il simbolo di un’arte etica in cerca di sé stessa, che si sperimenta anche attraverso il dolore concreto dell’essere in vita (come per Marina Abramovic, Nan Goldin, Vanessa Beecroft e Marzia Migliora). La Corner Woman di Jan van Oost, in apertura del percorso espositivo, è in questo senso il monito più estremo: il manichino seduto è come una donna vera, ma immobile quanto la morte.
Certo la collezione rispecchia anche un’idea di bellezza. Virtù (1966) di Sabrina Torelli, nella sezione Oggetti, ne è un concentrato. Si tratta di due gomme siliconiche colorate poggiate su due piccole mensole a muro che cadono al suolo con la lentezza incostante della forza di gravità. Ogni sera i guardiani le ricompongono raccogliendole in una scatola di plexiglas per poi rinstallarle il mattino seguente. È un’ode alla bellezza effimera ed essenziale, tipica dell’energia naturale insita in tutte le cose.
Passione e riflessione etica, eleganza dell’artificio e ricerca sociale sono dunque i temi che meglio definiscono la collezione La Gaia. Le tante immagini fotografiche presenti in mostra non fanno che sottolinearlo. Da un lato, la serie delle Interpretations of Dreams (2001) di Andres Serrano o il Trittico delle vedove (1997) di Inez Van Lamsweerde propongono temi di grande impatto, che sollevano tabù sociali di difficile soluzione. Dall’altro, i mari e gli oceani senza tempo né luogo di Hiroshi Sugimoto, spazi lisci della memoria in cui il bianco e nero separano con precisione geometrica gli equilibri yin e yang, cantano la bellezza epurata degli elementi naturali.
emanuela genesio
mostra visitata il 14 maggio 2006
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grande mostra, bellissimo lo spazio. Tra l'altro nello stesso museo è in corso una mostra di Penone che vale anche lei la pena