Il Filatoio di Caraglio ospita in questi mesi mondi diametralmente opposti. Innanzitutto quello composto dalle opere ritrovate e mai esposte di un pittore scomparso,
Ettore Fico (Piatto, Biella, 1917 – Torino, 2004), di cui si celebra e si ricorda una vita intensa e lunghi viaggi nel colore. I numerosi dipinti a olio e i vitali acquarelli testimoniano di un sincero e appassionato percorso artistico, che lo portò nel 1955 a essere invitato alla Quadriennale di Roma.
Da questo sguardo sul territorio si compie un balzo alla ricerca delle figure più interessanti dell’arte contemporanea d’avanguardia: con la rassegna
Avamposti, Andrea Busto si è concentrato su progetti di grande spessore culturale, in stretta collaborazione con privati, in questo caso la Galleria Photo & Contemporary di Torino.
Ed ecco realizzata in situ una raffinata personale di
Patrizia Guerresi Maïmouna (Pove del Grappa, Vicenza, 1951; vive a Monteforte d’Alpone, Verona).
Alle pareti, grandi immagini dei mistici personaggi africani che l’artista ama trasformare in surreali icone, caratterizzate da una bisettrice bianca sul volto e da candidi mantelli che raddoppiano la simbolica altezza della figura e la svuotano di ogni corporeo contenuto, trasformando in forza del pensiero tutto ciò ch’è materia. Al centro della sala, esili listelli in alluminio rimandano all’archetipo della casa o alle tumulazioni collettive sarde di epoca protostorica, le Tombe dei Giganti. Sul pavimento, una serie di pantofole fuse nello stesso metallo, così come i pani posati nella struttura accanto. Un video riprende un gruppo di donne in Kenya col velo, in una soleggiata giornata di vento. E il vento ricompone le vesti e ritma una lenta danza rituale. La diversità diventa inessenziale in quest’atmosfera in cui si sublimano i gesti e i valori del quotidiano, ricercando un superiore e universale sentimento del divino legato al tema dell’immortalità dell’anima.
Dalla profondità di questi temi allo stupore del prezioso allestimento di
Fantasie guerriere, in cui gli straordinari abiti-scultura di
Roberto Capucci (Roma, 1930) si alternano e si rispecchiano nelle armature dei samurai del XVII e XVIII secolo. L
a creatività dello stilista romano si è alimentata nel corso degli anni di una profonda conoscenza della tecnica di lavorazione della seta, come se fosse un duttile metallo da plasmare e modellare, fino a ottenere dettagli e modelli degni del più raffinato architetto delle forme. Non abiti di sartoria ma sculture, le cui linee voluttuose incantano, traducendosi in giochi di luminosa plasticità, in aperture di ali di farfalla, in taffettà plissé e in linee dal ricercato design in velluto e raso.
Rigide pieghe in lamè argento e oro si rispecchiano nei bagliori degli elmi e delle spade dei samurai. Il Giappone presenta un’arte poco nota, quella di associare fettucce e trecce di seta a lamelle e inserti di metallo, il tutto armonizzato con il sapiente utilizzo di lacche lucidate, dalla cui lavorazione si possono ottenere dettagli dalla cura insuperabile.
Una mostra affascinante, che rende onore alla creatività italiana ma soprattutto alla capacità dell’uomo di evolversi e studiare le caratteristiche dei materiali. Per trasformarli nella testimonianza della sapienza di una cultura, occidentale o orientale che sia.