Uno dei grandi saloni di Tucci Russo è occupato per la terza volta dal mondo delle idee di
Francesco Gennari (Fano, Pesaro, 1973; vive a Fano e Milano). Il pensiero ha bisogno di un confine prestabilito, di uno spazio in cui sentirsi protetto? La risposta parrebbe ovvia: non vi sono confini all’interno della materia che possano creare vincoli significativi all’errare cognitivo, non vi sono muri che possano imprigionare la creatività.
Eppure, l’uomo dominato dall’ambiente e dalle sue variabili difficilmente riesce a esprimere una visione consapevole del proprio mondo interiore. È necessario eliminare il controllo sulla propria razionalità per permettere all’energia che si sviluppa di trasformarsi in forme reali. Nulla di più difficile.
Gennari da anni ruota intorno a questo concetto, e in tutte le sue espressioni. In tutti i suoi molteplici autoritratti rivendica una sola e pura forma di libertà: quella di potersi continuamente autodefinire assolutamente slegato da ogni referente tradizionale. Avverte che questo difficile processo non può avvenire ovunque, anche perché per essere autentico deve rimanere inconsapevole. E questo accade nel
suo studio, dove le forme si ricollegano al
suo mondo:
Il luogo dove non c’è più posto per la coscienza.
Per entrare in una corretta relazione forma-pensiero, alcuni pilastri e angoli di quest’ambiente vengono trasposti in segni, sbriciolati in polvere d’argento sul pavimento. In questo contesto accolgono e riassorbono la scultura in marmo nero del Belgio che individua lo sguardo dell’artista, dichiaratamente indifferente a qualsiasi tipo di contaminazione. Un meandro virtuale in cui appare anche
Contrazione n. 2, immacolata scultura che rappresenta un osso di un qualche essere presente nella sua mente. La debolezza di questo lavoro è da ricercare nella semplicistica casualità di alcune scelte compositive, la forza invece stranamente si conferma nella coerenza autoreferenziale del progetto.
Dopo quest’immersione nel concettuale, risulta impossibile ignorare
Paradigm, l’opera già presentata ad Artissima lo scorso anno e che immediatamente evoca
Conrad Shawcross (Londra, 1977), un altro giovane artista di cui si è già molto scritto in Inghilterra, un vero fenomeno nel riscuotere l’interesse delle gallerie più importanti. L’opera citata è una grande macchina in legno di quercia in cui diversi artigli rotanti montati su pale in movimento avvolgono e srotolano una corda alla stessa velocità; un meccanismo totalmente manuale e molto complesso.
L’artista afferma di essersi ispirato alla figura del matematico Charles Babbage e della sua macchina differenziale, geniale nelle intuizioni e caparbio nel raggiungere gli intenti, ma fallì perché talmente avanti nel pensiero da non essere sostenuto da una tecnologia adeguata. Invece Shawcross torna alla manualità per ottenere risultati inusuali e vorticosi, in cui la predisposizione alla meccanica e alla tecnologia lo aiuta a realizzare congegni che incuriosiscono e stimolano lo spettatore.
Sopra una piccola barca in legno l’artista è riuscito a installare un proiettore e uno schermo che ruotano intorno a un perno centrale. In precedenza, nella medesima posizione, durante la navigazione c’era una cinepresa. Si tratta di
Pre-Retroscope, e il video fornisce un’attenta analisi di un viaggio sul fiume Lea, di cui possiamo fruire di una panoramica in soggettiva di ogni angolatura radiale del paesaggio.
Alle pareti della galleria, le immagini di un’esperienza centuplicata a livello sensoriale. E da non trascurare
Palindrome, un’altra macchina in una stanza buia che riesce a creare una clessidra di scie luminose, un diagramma attraverso due braccia che si avvicinano e si allontanano, mutando simmetricamente la distanza dei punti luce all’estremità.