Dal 1979 l’Afghanistan vive una tragedia inenarrabile, una situazione di conflitto permanente, passata attraverso diverse fasi, dalla guerra tra le forze sovietiche e la resistenza alla lotta fra talebani e Alleanza del Nord, con il risultato drammatico di oltre un milione e mezzo di morti, anche tra la popolazione civile.
Lida Abdul (Kabul, 1973) è testimone della storia; video, fotografia e installazione sono le metodiche del suo lavoro, attraverso le quali mette a fuoco vicende epocali, osservate non alla luce pessimistica della distruzione, quanto piuttosto con una prospettiva di speranza. Non vi è violenza nella sua evocazione: alla memoria è affidato l’arduo compito di verificare situazioni, per andare oltre. La formazione di Abdul è avvenuta tra Oriente e Occidente, Germania e Stati Uniti; la sua ricerca si colloca a mezza strada tra realismo e simbolo, sempre al limite.
Al ritorno nella terra d’origine ebbe modo di affermare: “
Pensavo a tre cose: rovine, attrezzature militari e tombe”, palesando l’affiorare della tragedia alla coscienza. Ma morte e distruzione non segnano la fine; appaiono, invece, un punto di riferimento per avviare una nuova esistenza nel segno del recupero di una dimensione umana.
Il video
Clapping with stones, girato nel 2005 nella valle di Barniyan, dove i talebani fecero saltare le statue di Buddha, sembra indicare proprio questa prospettiva: la roccia vulnerata è salda, nonostante tutto. Trovare una certezza diventa una necessità a ogni costo, quando un popolo rischia di smarrire la propria identità : in questo senso la dimora, elemento ricorrente nel lavoro, rappresenta una realtà irrinunciabile.
In mostra Abdul presenta tre video e due fotografie.
In Transit (2008), che dà il titolo all’intera rassegna, sottolinea il difficile periodo di transizione che l’Afghanistan sta attraversando. I protagonisti sono bambini, senza i quali nessuna ricostruzione sarebbe possibile, intenti a tendere nell’aria fili di cotone, materiale normalmente utilizzato per proteggere le ferite. In questo caso serve, invece, a colmare i buchi della fusoliera di un vecchio aereo sovietico, quasi fosse umano.
Our delirium (2008) è la “storia” di un mitragliatore distrutto da un bombardamento: il delirio è quello di una guerra distruttiva che spegne qualsiasi certezza razionale.
Il terzo video,
Speaking and Hearing (1999-2001), è di carattere autobiografico: dalla bocca dell’artista esce un’immagine che raffigura uno zio ucciso nel conflitto e, successivamente, la fotografia di un edificio distrutto dalle bombe. Il movimento, lentissimo, in contrasto con la drastica velocità delle incursioni belliche, rende la situazione ancor più inquietante e drammatica.